venerdì 17 giugno 2011

Silenzi - Parte III

-No, niente di diverso dal solito. Ho parlato con la neuropsichiatra ed è molto soddisfatta dei risultati di Enza. Anche il suo rendimento scolastico è quasi sufficiente-.
Un sorriso della madre mi fece sbottare: - Sì, ma Enza non sta bene. Non possiamo accontentarci di questi piccoli miglioramenti. Lei si accontenta?-
La madre finalmente si tolse quel sorriso mesto e spaurito dalla faccia. Non rispose nulla.
- Cos'ha avuto Enza? Qui nessuno ne parla. La neuropsichiatra mi ha parlato di una violenza.-
S'irrigidì e poi chinò lo sguardo per qualche attimo. Mi sporsi verso di lei e, quasi bisbigliando, come se parlassi ad Enza, le chiesi di raccontarmi questa storia. Mi confermò che Enza all'età di cinque anni aveva subìto delle attenzioni particolari (non pronunciò né la parola violenzasessuale) da un bidello della sua scuola. E che per reazione, lentamente prima e poi di botto, si era trincerata nel suo silenzio.
-A casa parla?- chiesi.
-Sì, con me parla abbastanza tranquillamente anche se a voce bassa. Parla tanto quando è da sola, quando gioca col suo cagnolino. Parla spesso di notte, mentre dorme, ma faccio fatica a capirla.-
- E col padre?- chiesi.
- In realtà con lui non parla affatto, per lo più mugugna... e lo respinge. Soprattutto da quando è in terapia.-
- Adesso dov'è? Posso parlare anche con lui?-
- Non vive più con noi da qualche anno. Da tre anni. Se n'è andato per via di Enza. -
- Gliel'ha chiesto lei?-
- No. Ma la situazione era diventata insostenibile, anche tra noi... -
- Ma Enza non lo vede mai?-
- Ogni tanto, quando capita...due o tre volte all'anno. Anche meno.-
- Fa terapia con un neuropsichiatria?-
- Sì, una volta la settimana va all'ASL ... fa terapia individuale e di gruppo, ma mi dicono che anche lì non parla.-
Non mi sembrò il caso di insistere e la salutai, preannunciandole un nostro prossimo incontro con la neuropsichiatra. Avevo battagliato molto per fissarne un altro in così breve tempo, perché di norma l'incontro è uno solo durante tutto l'anno. E, a volte, salta anche quello, per via del sovraffollamento di pazienti nelle strutture ospedaliere ormai smantellate dalla logica dei tagli finanziari.

Un giorno decisi di portarla fuori, nel cortile, a fare due passi. Non era un giorno per niente diverso dagli altri, non per Enza che mi sembrava sempre la stessa, anche se forse era un po’ ansiosa. E quel giorno anche io mi sentivo un po’ strana, un po’ inquieta, demoralizzata, forse.
Non riuscivo ad essere incisiva con lei. E del resto il suo silenzio aveva invaso anche me. Mi sentivo costretta anche io a parlare a voce bassa, a biascicare. Il tono della mia voce era sempre il più alto di tutte. Un po’ mi costringevano a vergognarmene e ad ovattarlo in me. A casa non parlavo con nessuno e fuori lo stesso.
Erano quattro mesi che vivevo lì e non avevo ancora conosciuto nessuno con cui poter parlare al di là dei soliti argomenti: scuola, frasi di cortesia, tempo e di Enza!
Popolo ottuso di montanari di confine!, pensavo.
Anaffettivi incestuosi!, dicevo.

Nel cortile Enza si lasciava condurre docilmente dove volevo, senza protestare. Non si guardava mai attorno, ma sempre fisso davanti a sé. Le tenevo forte la mano. E lei non mollava la presa.
- Guarda che bella giornata oggi, Enza!- le dicevo all’orecchio, ma lei non si voltava neanche.
- Hai visto quanto sole c’è oggi? E pensa che siamo a gennaio!-
Il sole le faceva gli occhi ancora più chiari e l’espressione più dolce del solito. L’accompagnai lungo tutto il perimetro del cortile per un paio di volte.
-Enza, a cosa pensi?-
Ad un certo punto decisi di lasciarle la mano e di lasciare che andasse dove voleva. O dove poteva.

Vidi il suo braccio ricadere sul fianco con un rumore sordo. Per un attimo rimase ferma sui suoi passi. Immobile, leggermente protesa in avanti.
Sporse il capo ancora più avanti, come se un vento la prendesse alle spalle.
Io al suo fianco la guardavo, anch’io immobile. In attesa di lei. Della sua mossa. Rimase ferma per un po’, anche lei in attesa. Di sé, forse. Poi mi guardò, indagando i miei occhi.

Di colpo dunque si mosse, da sola. E camminò. La lasciai andare dove voleva, standole sempre alle spalle. Camminava mugugnando qualcosa che non colsi. Lasciò il cortile ed entrò nel campo di calcetto e lo tagliò in diagonale, io facevo un po’ fatica a starle dietro perché camminava velocemente.
Enza, vuoi fuggire?, pensavo.
Arrivò fino alla recinzione metallica e trovò un varco dove era rotta. Arrivò fin su un muretto che dava sulla strada, di sotto. Ci salì sopra, in piedi, a dondolare su di esso. Immaginai che cadesse di sotto, sulla strada, per un volo lungo lungo e per un secondo forse lo desiderai anche.

Quella era una giornata strana, una di quelle giornate nelle quali sarebbe potuto accadere di tutto.
Enza. Un’acciughina bionda, esile come un ramo di giunco, avrebbe potuto precipitare giù. Avrebbe taciuto per sempre, legittimata a farlo e senza dover dare spiegazioni a nessuno.

Guardava in basso. Poi si voltava verso di me. E poi ancora verso la strada. Dondolò per qualche attimo.
Enza, vuoi fuggire?, pensai.
Inciampò. La vidi cadere. Forse che l’avevo portata lì per ucciderla?
Riuscì ad aggrapparsi al muretto non so per quale abilità o fortuna.
-Aiuto!- disse urlando.
L’aria si fermò, mi sembrò tremare. E la sua voce mi sembrò bellissima.
-Non c’è bisogno che urli, Enza, io sono qui. Io ci sono e ti tengo forte- dissi tirandola su, al sicuro. Mi sorrise. Questa volta con pienezza. E solo a me.

Da allora Enza nei miei confronti cambiò ed iniziò a parlarmi quasi di colpo, certi giorni addirittura lungamente. Parlava, specie quando era un po’ nervosa, molto velocemente, quasi come flusso di coscienza. Parlava di tutto. Parlava con consapevolezza. Parlava di sé, a me non faceva mai domande, ma andava bene così. Ancora però non si sentiva libera di farlo in pubblico o davanti alla classe ed era su quello che avrei voluto lavorare.

E quando incominciammo ad abituarci l’una alla voce e ai pensieri dell’altra e quando Enza prese a fidarsi di me, arrivò come un macigno su di noi la data della scadenza del mio contratto che non mi fu rinnovato.
31 gennaio e di Enza non seppi quasi più nulla.
Silenzio.

La scuola non assicurò la continuità didattica ed Enza dovette abituarsi a qualcun altro. E forse a tacere con qualcun altro.

Adesso io insegno altrove, in un’altra provincia, con altri ragazzi in cerca di stabilità, ma sempre, quando li guardo negli occhi, rivedo gli occhi di Enza.
E, in fondo, c’è sempre lo stesso silenzio.

Brano tratto dal racconto inedito Silenzi di Maria Luigia Longo


2 commenti:

Anonimo ha detto...

chi aspettava il lieto fine sa che forse non c'e´o forse c'e´stato solo che noi non eravamo li´a vederlo.
Pero´nel cuore di chi abbiamo incontrato, se siamo state autentiche, c'e´sempre un lieto fine.
laura

Maria Luigia Longo ha detto...

sorrido.
Grazie per la tua lettura attenta!
spero sia proprio così.
un bacio