mercoledì 1 giugno 2011

Per forza (la continuazione...)

[...]

Un giorno, l’ultimo in cui avrebbe atteso, prima di tornare da dove era venuto entrò nel Duomo deserto e fresco. Passò lentamente in rassegna le pareti istoriate e tutte le statue dei santi delle navate laterali, segnandosi con la mano destra la fronte, il petto e le spalle davanti ad ognuno e lanciando baci di devozione. Attese molto tempo prima di proseguire davanti dall’affresco del Giudizio Universale, frammento supersite della decorazione pittorica medioevale. Percorse adagio la navata centrale e davanti all’altare maggiore depose i fiori. Si muoveva con gesti asciutti, precisi, tutto assorto in essi. Senza mai voltarsi e quindi non scorgendomi alle sue spalle, appena dietro di lui, si inginocchiò ad uno dei primi banchi e con la testa fra le mani cominciò forse a pregare. Oppure a pensare. Stette così per molto tempo.

Era da anni che non entravo in una chiesa. Ne riafferrai il silenzio, ricreatosi dopo il rumore dei tacchi sul pavimento.

Dal rosone centrale filtrava una luce calda che, grazie ad un gioco di chiari e ombre che pareva esistere per un voluto incanto, regalava all’intera scena un che di onirico.

- Ha bisogno d’aiuto? – chiesi muovendomi senza sapere perché e posandogli una mano sulla spalla.

Sollevò il capo di sguincio, permettendomi di intravedere uno solo degli occhi: lo attraversò un’espressione fugace di stralunata sorpresa.

- Sta male? - mi affrettai a chiedere ancora.

- Oggi ho perso mia figlia. - rispose. Netto, senza lasciare nella voce strascichi di alcunché e sollevando dalla mia parte completamente il capo.

Ernesto.

Non sapevo nient’altro di lui e lo seguii nei suoi racconti, incamminandomi sul crinale della sua vita.

Era un viaggiatore, aveva imparato a provare piacere nel raccontare la propria storia, rinnovando così il legame con se stesso e con le proprie origini, altrimenti flebile.

Un po’ per gioco e un po’ per forza, da più di trent’anni aveva lasciato Matera per girare l’Europa come pianista di pianobar.

Ernesto. Pianista di pianobar. Che intratteneva l’Europa un po’ per gioco e un po’ per non morire di fame.

Monaco, Berlino, Parigi, Londra, di nuovo Parigi, Nizza, ancora Parigi, Barcellona, Madrid divertite dalle sue note. Ancora bambino, aveva imparato a suonare il piano da solo, senza spartiti, a orecchio.

Aveva una voce roca che svestiva il tono pacato assai di rado.

Rimanemmo a chiacchierare per un tempo lunghissimo, nel Duomo romanico, uno di fronte all’altra. Sul suo viso si avvicendavano espressioni curiose che non ho più dimenticato. Le vocali erano il suo vezzo, le pronunciava stringendo e allungando le labbra, che trascinavano con sé i baffetti neri e socchiudendo perfino gli occhi. Amavo pensare che questo fosse un lascito parigino.

-Il mondo mi ha fatto migliore.- disse sottovoce, dicendolo a se stesso più che a me. E quando lo disse mi sembrò bellissimo.

Mi raccontò che una volta, sulle sponde del Tamigi, conobbe un giamaicano di nome Simeon, noleggiatore di barche che aveva fatto di quell’angolo straniero di mondo il suo regno. Mi raccontò come una sera lo avesse trovato sdraiato sulla riva, ubriaco e immensamente triste, a piangere perché qualcuno aveva tentato di mandarlo via da lì. Mi parlò, poi, di come la notte successiva l’avessero trovato morto suicida, riverso nell’erba. Il re era rimasto privo di sé in quello che aveva a torto creduto essere il suo regno. E di quella notte era rimasta probabilmente soltanto l’umidità.

Ernesto era un re e il suo regno semplicemente la memoria. Nessuno avrebbe mai potuto usurparglielo. E il viaggio era soltanto il cavallo con cui lo percorreva in lungo e in largo.

Ci fu una pausa lunghissima che né io né lui decidemmo di abbreviare. Ernesto si guardava attorno, io guardavo soltanto lui.

Mi portò fuori: il cielo era cambiato e si era alzato il venticello; era quasi sera. Penetrammo insieme nei Sassi e, dopo tante parole, a condurci fu ancora il silenzio. Mi mostrò il Sasso, ora ristrutturato, che era appartenuto a suo nonno e che negli anni cinquanta aveva dovuto abbandonare a causa della politica di sfollamento dell’intera area. Ora era suo. Ammodernato da poco, era quasi del tutto privo di mobilio: tappeti persiani e cuscini sparsi ovunque erano gli unici elementi che arricchivano un ambiente in realtà molto minimale: due ampie stanze separate da pareti ad archi che lasciavano presupporre la linea della pietra, da cui l’abitazione era ricavata. L’eccezionale architettura di quelle costruzioni uniche al mondo mi lascia tutt’ora sbalordita: è un mirabile esempio delle multiformi possibilità dell’ingegno umano.

Nei minuti che seguirono il nostro ingresso nel Sasso Ernesto li passò a raccontarmi di sua figlia Brunella, di come nel giro di tre mesi l’aveva conosciuta e persa, di come l’aveva attesa in piazza duomo, di come la donna con cui l’aveva generata gli avesse taciuto tutto di lei, perfino la sua esistenza. L’aveva vissuto come un tradimento.

Conservava di lei soltanto una fotografia arrivatagli un giorno bruscamente per posta e che aveva spezzato la sua vita in due parti.

- La sua assenza brucia nel petto come un tizzone.- mi disse.

Brunella aveva accettato di incontrarlo soltanto una volta e in compagnia del marito, l’aveva incontrato - neanche troppo convinta - per semplice cortesia forse e poi era tornata alla sua vita di madre orfana di un padre assente latitante sepolto per sempre.

Non sembrava particolarmente a suo agio Ernesto in quel posto, forse perché quando si è molto vicini al passato se ne sente maggiormente il peso. Pareva anzi piuttosto spaesato. Certi luoghi, poi, affiorano alla memoria come i cerchi concentrici sulla superficie dell’acqua prima che la pietra che li ha generati definitivamente affondi. Avvertivo quegli stessi cerchi sulla sua pelle mentre lo accarezzavo. Piano, nel silenzio di un mondo sepolto che tornava a vivere.

Ho preteso l’amore da quell’uomo, l’ho voluto con forza. Gli ho strappato una passione che non ho mai più provato, aggrappandomi per un attimo a lui e alla sua intima estraneità. Attraverso le parole ho afferrato la sua vita annodandomela al dito come fosse una fede.

- Devi proprio andare? – gli chiesi in un impeto dovuto più alla circostanza che ad un mio desiderio preciso.

- Per forza. – rispose, rivestendosi in fretta e con i pensieri già altrove.

L’uomo che mi ha aperto la porta del Duomo e che per un giorno mi ha tenuta appesa al filo della sua esistenza, era già tornato da dove era venuto.

Fu l’ultima volta che lo incontrai davvero.

Lasciando quella casa, ritornai nella mia con una nuova vita in seno, con la quale divido tutt’ora il volo delle rondini e il mio terrazzo.

Quell’uomo ritorna spesso nelle movenze di mio figlio e non saprà mai che anche io, come quella donna, l’ho tradito.

A quel tempo avrei potuto partire per un lungo viaggio e l’ho fatto, percorrendo il destino polveroso di un randagio che ho incontrato un giorno per strada.

Tratto da Per forza, Trilogia dell'incontro e altre storie

di Maria Luigia Longo

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Che bello! e che poesia.....

helios ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
helios ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
helios ha detto...

Il viaggio. L'andare. Un luogo non vale l'altro, anche se la meta coincide col punto di partenza. C'è il tempo di mezzo. C'è un processo che s'allunga come un'ombra. Nell'ombra che genera la luce. Ernesto è in viaggio. Ernesto è il viaggio. Ovunque vada va verso il punto di partenza, dunque di arrivo. Torniamo sempre da dove veniamo. Parigi, Madrid, Londra: nessuna differenza. Non conta la meta. Solo il cammino dicono i maestri zen. Al centro c'è un arco che tutto comprende. Dall'incontro in una chiesa, dove ombre e luci non sono alternativi, alla conclusione infinita di una storia qualsiasi. Dal testo emerge nitido il senso: "...avrei potuto partire per un lungo viaggio e l’ho fatto, percorrendo il destino polveroso di un randagio che ho incontrato un giorno per strada." Il viaggio, il procedere non si piega allo spazio ma percorre le pieghe del tempo. Del tempo narrante, del tempo narrato. Psicocronia è la parola chiave. Il destino è la strada e insieme la meta. I due estremi dell'arco che, nel punto di massima tensione, si toccano fino a concidere: "Toi oun tóxoi ónoma bíos, érgon dè thánatos" (Il nome dell’arco è biòs e bìos è vita: opera ne è la morte). Le frecce siamo noi. Può darsi che, insieme a Maria Luigia, anche Eraclito avesse qualche ragione.

Maria Luigia Longo ha detto...

Be'...il viaggio
Il viaggio è metafora universale (persino abusata), che però allo stesso tempo consente di cogliere e pensare l’al di là del pensiero stesso. E permette di farlo in una prospettiva libera da remore di natura moralistica.
A me, del viaggio inteso così, piace e stimola l'idea legata a concetti quali l'incontro/scontro con l’alterità (anche dentro di sé), l’accoglienza, il distacco che il viaggio comporta e l’unicità di ogni percorso, anche. E del viaggio cerco soprattutto gli anfratti, la frattura, la piega, la ruga.
Quanto al rapporto tra spazio e tempo, è tutto da reinventare ogni volta. Certamente il tempo curioso e contemplativo dell'attesa e dell'ascolto è quello che più mi si confà.
E, sì, penso che il viaggio sia nell'andare e non nella meta; cioè la meta è il viaggio stesso.
Ernesto è un viaggiatore reale e fisico, la protagonista del racconto è una viaggiatrice "psicocronica" come dici tu.
"I due estremi dell'arco [...], nel punto di massima tensione, si toccano fino a coincidere[...]"... senza dubbio lo penso anch'io.

Grazie della lettura, Elio.
Continua a farlo!