martedì 29 novembre 2011



Cari amici,
vi comunico con immenso piacere
 che giovedì 1 dicembre alle ore 18,30 presso la Libreria Mangiaparole (Via Manlio Capitolino 7/9 Roma – Zona Metro Furio Camillo) avrà luogo la presentazione dell'Antologia di racconti brevi, 
edita dalla Casa Editrice Perrone Editore di Roma
nella quale è stato inserito il mio racconto Ritratto di un'attesa

Interverranno Cristiano Armati, Giorgio Manacorda e Giulio Perrone. 


Vi informo anche che è possibile acquistare il volume in quella sede
oppure ordinarlo direttamente sul sito della casa editrice o anche direttamente da me via e-mail.

A presto e buone letture a tutti!



giovedì 24 novembre 2011

Vuotami di te, Sgombro il campo, Sotto una soleggiata genia, ...


Vuotami di te
e le tasche
oggi
degli affetti miei personali
a tutti gli effetti
spersonalizzati.
         Vuoto il-limite
          e sgorgano parole


Sgombro il campo
da smanie sottintese
che solo per pedanteria
affiorano a pena
incespicando
col rossore di una vergine
forse già troppo matura
e incanutita sdentata miope.


Sotto una soleggiata genia
si affollano incaute appariscenze e
tramortite presenze
per dissentire ancora una volta.


Con te con-te(n)-ta sto e
umana
ma priva(-ta) forse meglio e
migliora-bile sicura-mente.
Sicura mente.

          (Maria Luigia Longo, Per prove e tentativi, 2000)

domenica 20 novembre 2011

Troppe volte


Troppe volte mi è parso di
stringere il desiderio
materializzato e di sentirlo
esistere.
Ho mangiato affamata in
piatti di bontà
invitata a popolosi banchetti.

Puntualmente ho vomitato
tutto
lasciando cadere
nel passato l’appetito.

         (Maria Luigia Longo, inedito 2001)

domenica 13 novembre 2011

PARIS, OÙ ES-TU?







Quando arrivava aprile io ero troppo troppo contento di essere vivo. Guardavo il cielo che diventava chiaro quasi di botto... puf! ed era giorno!
La mattina mi svegliavo presto, alle prime luci e aspettavo che mia mamma rientrasse dalla ronda notturna. A quel tempo lei e altre donne dell'associazione Lea si erano messe in testa che dovevano pattugliare il quartiere.
-Il quartiere è nostro! Capisci, Maurice?- mi diceva le prime volte. - Non dobbiamo abbandonarlo!
- Il quartiere è una merda- le rispondevo - Qui non c'è un cazzo da fare. E' una galera.-
- C'è molto da fare, invece!-


Quella matta di mia madre si era messa in testa di fare il giustiziere della notte, armata solo di taccuino e biro. Usciva di casa verso mezzanotte e s'incontrava con Sophie, Fatima, Zahra, Patricia e le altre. Erano in quindici sedici all'inizio... e, d'accordo con l'assessore alla Tranquillità Pubblica di Montreuil, passavano la notte ad annotare sul taccuino tutto quello che vedevano di strano per le strade del quartiere e segnalavano problemi, mancanze...spacciatori compresi!
- Com'è andata stanotte?- le chiedevo quando rientrava
- Maurice, stanotte abbiamo contato che c'è un lampione ogni due chilometri di strada. Possibile?! Come fai ad evitare le aggressioni se intanto qui è tutto buio! - 

Lei se la prendeva davvero. Ci credeva tanto nel quartiere.
E voleva che anche io facessi qualcosa di buono per migliorare le cose. Ma io in quel periodo ero un casino: avevo lasciato la scuola e non avevo niente da fare per tutto il giorno. Trovare un lavoro come si deve era praticamente impossibile, prima di tutto perché avevo solo sedici anni e poi perché di lavoro in giro non ce n'era, almeno per me.


All'inizio mi alzavo tardi, quasi a ora di pranzo e scendevo direttamente giù a mangiare un kebab o qualsiasi cosa fosse commestibile e poi me ne andavo a cazzeggiare in giro con i miei amici. Giocavamo quasi tutto il tempo a pallone: all'epoca adoravo Lilian Thuram e lo imitavo in tutto e per tutto. Se lo beccavo in tv o su qualche manifesto in centro mi immobilizzavo davanti a lui. Ma anche io ero bravo a giocare a calcio. Ero magico nel corpo a corpo, nessuno mi sfuggiva. Giocavo con l'uomo volante: driblavo chiunque con l'aiuto del muro di un palazzo, o del palo della luce o del marciapiede che, col rimbalzo, mi facevano da compagno di squadra. Eravamo una coppia infallibile, l'uomo volante e io. 
A volte con i miei amici ci esercitavamo sullo skateboard mentre ascoltavamo musica rap o R&B, proprio di fronte a Rue de l'Acacia, dov'è ancora oggi il ghetto dei rom. Ci mettevamo quasi vicino al cancello del loro recinto e Ali partiva con i suoi rap. 


A volte mi fermavo a parlare con Moustapha, un vecchio cieco che veniva, anche lui come noi, da Algeri. Lui era arrivato negli anni '70, mamma lo conosceva bene perché erano arrivati insieme. Mamma aveva cinque anni e lui invece era già più che un ragazzo. Li sistemarono tutti qui, a Montreuil. Avrebbero dovuto starci poco, due tre anni al massimo e invece se li erano dimenticati qui.
- Mousta, ma perché non hai preso e te ne sei andato?- gli ho chiesto una volta.
- Ci ho provato, Maurice... Ci ho provato due o tre volte. Ma dove me ne potevo andare? Da quando sono diventato cieco, poi...- E finiva sempre col raccontarmi i suoi malanni: la perdita della vista, poi del lavoro e poi la morte della moglie, proprio lì nel quartiere. Lui se ne stava sempre seduto sul marciapiede sotto il mio palazzo e qualche volta qualcuno gli portava da mangiare, anche mamma, o gli faceva l'elemosina. Lui non chiedeva niente però e in effetti non so come si mantenesse.
A me piaceva ascoltarlo, ma soprattutto quando mi raccontava dell'Algeria e dei primi tempi in cui era a Parigi: era così bravo che mi faceva vedere i colori, mi faceva sentire i profumi, sentire le voci...e il suo francese ancora un po' da straniero mi faceva viaggiare.


Da quando mamma aveva iniziato a fare la volontaria delle ronde però continuavo a pensare sempre a quello che mi raccontava e a quando mi diceva che è importante raccontare le proprie strade. Mamma era brava a raccontare qualsiasi cosa.
- La periferia, Maurice, non è solo quella che raccontano in tv o quelli che vivono in centro!-
E un po' aveva ragione, anche se all'epoca io la rabbia la sentivo davvero e non perché me la raccontavano quelli di Montparnasse. Anche perché io quasi mai andavo in centro o leggevo i giornali. Lei invece leggeva tanto, sopratutto da quando le avevano dato il part time e aveva tanto tanto tempo per fare quello che le piaceva. A volte s'incazzava tanto per alcune frasi che dicevano su di noi che abitiamo nelle periferie. Che eravamo tutti delinquenti, tutti spacciatori e che violentavamo le donne. Sì, a volte sentivo di fatti del genere, ma io non c'entravo niente con quelle storie e neanche i miei amici.
Una volta, ad esempio, si è incazzata davvero tanto perché Sarkozy aveva definito racaille, feccia, i ragazzi delle banlieue.
-Tu ti senti una feccia, Maurice?- mi chiese
- Io veramente mi sento una merda, mamma- dissi ridendo, ma non per quello che intendeva quello stronzo di Sarko. Mamma quella volta s'incazzò pure con me per quello che avevo risposto, anche se l'avevo detto ridendo.
- Solo uno gli ha risposto per le rime: il tuo Thuram!- concluse trionfante.
Più tardi ho saputo che, una volta diventato presidente, gli ha offerto un posto come ministro della Diversità, ma che Lilian l'ha garbatamente mandato a fanculo.


Sarà stato perché mamma mi martellava con le sue storie, ma da un certo momento in poi guardavo il quartiere in un altro modo: anch'io notavo quello che non andava e lo raccontavo agli altri. Non scrivevo niente, scrivere proprio non mi piaceva, ma glielo raccontavo a parole.
Una volta, di fronte al muro della scuola, avevo letto la scritta: 'FRANCIA BIANCA, RABBIA NERA' e, a fianco, una marea di parolacce. E mi era venuta l'idea di fotografarla. Ma non avevo una macchina fotografica e allora chiesi ad Hassan se poteva procurarmene una tranquilla. Lui lo chiese a suo cugino e, nel giro di due giorni, ebbi la mia prima compatta Canon! Neanche a dirlo e mia mamma me la fece buttare in fondo alla Senna e mi fece sentire come se avessi compiuto il delitto del secolo.
- Maurice, non è così che bisogna agire. Su, pensaci bene!-
E io ci avevo pensato bene e avevo deciso di restituirla ad Hassan, ma poi mi ero un po' vergognato e non l'avevo mai fatto. Me la tenevo nello zaino ma non fotografavo niente. L'unica foto che avevo fatto era quella scritta sul muro. E per tanto tempo fu così: me la portavo in giro ma non fotografavo proprio niente. Però continuavo a pensarci.


A un certo punto mi capitò di trovarmi un lavoretto. Mi era capitato davvero per caso mentre una domenica con mia mamma stavamo andando a trovare una sua amica che abita a Le Marais. Scesi dal metro, sulla vetrina di una boulangerie, c'era scritto che cercavano un ragazzo per le consegne nel quartiere. Il giorno dopo iniziai. Mi pagavano quattro spiccioli, ma puntuali ogni settimana e io mettevo da parte quasi tutto per comprarmi la mia fotocamera digitale. Quando fui abbastanza vicino alla cifra che volevo raccogliere mi fermai sulla Senna e lanciai giù quella che mi aveva dato più di quattro mesi prima Hassan.


Così iniziai a far foto. Finito il lavoro mi fermavo a fotografare intorno alla boulangerie: le case, le panchine, gli alberi... le persone: i ritratti mi venivano troppo bene! Dopo qualche mese avevo già raccolto migliaia di foto, anche di turisti. Avevo, poi, fotografato più di duecento scorci sulla Senna. Meravigliosi!
Quando arrivava aprile ero troppo troppo contento: c'era una luce bellissima e faceva notte più tardi. E c'erano di quei tramonti...incredibili!


Quando tornavo a casa a volte, prima di salire, raccontavo tutto a Mousta e certe volte gli descrivevo le foto. E col tempo era proprio lui che me lo chiedeva.
-Dài, Maurice, raccontami qualche foto di oggi!- mi diceva.
- Bella Parigi, no?- dicevo prima di andare e lui rispondeva sempre - Eh sì, bella Parigi...ma dov'è Parigi, Maurice?- e lo ripeteva due o tre volte, ma dopo la seconda io lo sentivo di meno perché ero già in corsa verso casa.


In quel periodo ero davvero felice.
E anche mia mamma credo che fosse contenta della piega che stava prendendo la mia vita.
- Mamma, hai visto?- le dicevo quando guardavamo insieme le foto
- Guarda questa! Bella, no?- e lei sorrideva e annuiva.
-Quanto è bella Parigi!- dicevo
- Sì, è bella, Maurice, ma perché non fotografi anche Montreuille? E' qui che viviamo. Parigi arriva fino a qui, in fondo.- mi disse una volta.
La cosa all'inizio non mi convinceva molto. Cosa dovevo fotografare? I palazzoni sporchi e cadenti, le scritte sui muri contro la polizia, i ragazzi che si facevano negli androni? Io volevo fare foto artistiche e lì di arte ne vedevo ben poca. Poi però una volta nel primo pomeriggio, mi fermai non so perché a guardare Mousta da lontano. Ero dall'altro lato della strada e lui non se n'accorse, non poteva neanche sentirmi. Il suo corpo, che a me sembrava un mucchietto d'ossa gettato sul marciapiede, nella luce lunga di quelle ore proiettava sul muro del palazzo, alle sue spalle, la sua immagine un po' piramidale. Lui se ne stava seduto a terra a gambe incrociate e la sua ombra, un po' più spostata, dietro. Come a fargli compagnia.


Ecco, di colpo quell'ombra mi è sembrata bellissima. E mi è sembrato che anche il palazzo avesse una sua dignità con quella sagoma nera proiettata nell'angolo in basso a sinistra. A me di Mousta piacevano le braccia magre magre e lunghe, il viso rugoso e i capelli bianchi in contrasto con la pelle scura e soprattutto i suoi movimenti lenti e flessuosi. Ma quello che da allora mi piacque di più di tutto fu la sua ombra nera sul muro: una macchia scura dai contorni sfumati immersa nella luce del sole. E l'ho fotografata.
Non ho mai fotografato il vecchio Mousta, forse per rispetto e per non essere invadente, ma la sua ombra invece sì. Più e più volte. Non so se l'ho letto o è una mia invenzione, ma avrei voluto prendere una matita e tracciare il contorno della sua sagoma sul muro e trattenerla lì per sempre. Anche adesso che Mousta non c'è più e io ho imparato a scovare l'arte dove pochi scommetterebbero che ci fosse.

                (PARIS, OÙ ES-TU?, Maria Luigia Longo, inedito 2011)

domenica 6 novembre 2011

LE PIETRE



Sento cadere le pietre che abbiamo gettato,
Cristalline negli anni. Nella valle
Volano le azioni confuse dall’attimo
Gridando da cima a cima degli alberi, tacciono
Nell’aria più leggera del presente, planano
Come rondini da cima
A cima dei monti finché
Raggiungono l’altopiano più remoto
Lungo la frontiera con l’aldilà.
Là cadono
Le nostre azioni cristalline
Su nessun fondo,
Tranne noi stessi. 



(Tomas Tranströmer, traduzione di Franco Buffoni, in F. Buffoni, Songs of Spring. Quaderno di traduzioni, Marcos y Marcos 1999)

giovedì 3 novembre 2011

Occorrenza.




Occorrenza di tutto                     di spazio

di tatto.

Perdo umani slanci di interezza
e questo scatena il lato ||                    || della mia fierezza
Balbo emotivo : io : il mio

…a rincorrere gesti già visti/sentiti/…già
/gestigià/
accartocciando vite parallele
stringendo i pugni-digrignando i denti-alzando la voce:
così sgomita la gente, così vorrebbero facessi io
                 <mio io>
«male sbozzolato» ancora non del tutto modellato
frantumato-sballottato-attenuato-sfrondato e…
ancora in cerca


                      (Maria Luigia Longo, inedito 2000)

mercoledì 2 novembre 2011

I suoni e la polvere



Lei, come ogni giovedì, è già entrata in bagno.
La casa è deserta, buia, tranne la finestra del bagno, che ogni giovedì a quest'ora emana una luce calda o così la vedo pensando al dopo.
Da lontano arrivano i suoni delle giostre che vengono ad allietare le serate estive della gente di questo paese e si mischiano alle voci e alle risate dei ragazzi che schiamazzano lì intorno. Mi ricordano un po' le estati di quando ero bambino ed eravamo appena arrivati in Francia con mia mamma e Amina.
Sento le pulsazioni dei bassi.
La porta è accostata e, anche se ho la chiave, lei me la lascia sempre un po' socchiusa. Giro con la chiave nella tasca dei pantaloni per tutto il giorno,quando ho la mano in tasca me lan rigiro continuamente fra le dita. La porto anche nel jeans del lavoro. Sto ben attento a non perderla e sopratutto che non si sporchi di polvere.
Dentro conosco bene la strada e vado subito verso il bagno. La porta è chiusa e lei già sotto la doccia. Sento lo scrosciare dell'acqua sul vetro e sul piano antiscivolo. Resto un po' così, con la maniglia fra le mani, ad ascoltare l'acqua. E la musica di fondo, le pulsazioni dei bassi e la notte così vicina.
E' un gioco che facciamo da un po': lei è sotto la doccia e io arrivo in silenzio, chissà da dove. Mi appoggio al lavandino e mi schiarisco la voce.
- Sei tu? -
Ha una voce allegra, squillante, che mi piace ascoltare mentre parla con i bambini ad esempio.
Mi appoggio al lavandino e resto per un po' a guardare la sua sagoma immersa nel vapore che sale dal box doccia e che ormai ha già appannato il vetro smerigliato, la finestra e lo specchio alle mie spalle.
-Sì, sono io. - rispondo.
Anche così, come una macchia di caffellatte dai contorni sfumati, lei è bellissima. Ha fianchi morbidi e capelli nerissimi e lunghi che non sembra neanche un'italiana.
- Ancora lì? Dài, sbrigati, se no, tra un po', ritornano i bambini con Ines... - quando parla è come se squittisse. Mi mette gioia.
L'idea di farlo nella doccia è venuta a me. Voglio togliermi ogni tanto quel residuo di polvere di cava dalle unghie e l'acqua mi dà l'impressione di riuscirci. Io, nel mio paese, sono uno scultore di alabastro, come molti in Egitto, e qui invece ho trovato lavoro in una cava di gesso. Le prime volte che tornavo a casa dal lavoro, oltre che sui vestiti, ritrovavo quella polvere ovunque: tra i capelli, in bocca, nelle orecchie e sotto le unghie, da cui faccio davvero fatica a farla andar via. All'inizio non stavo molto attento e me la ritrovavo nelle tasche dei jeans e nella zigrinatura delle chiavi, perfino quella di casa sua.
In Egitto mi piaceva tornare a casa dopo il lavoro un po' impolverato, qui no. Mi lavo giù in garage e non dò mai alla polvere la possibilità di salire le scale con me.
- Eddy, dài...vieni?- e spalanca la porta del box doccia. Fuoriesce una nuvola di vapore e intravedo il suo corpo perfetto, bello.
-Resto qui.- dico, con uno strano suono nella voce che può sembrare un lamento.
- Su, non metterti a fare i capricci!- dice, anche questa volta sorridendo.
Voglio restare qui e voglio guardarla.
- Ma che hai?-
-...- la guardo e stasera mi sembra più di quello che posso avere e che posso permettermi.
- Penso a lui. - dico
-Ancora con questa storia?!- ed esce dalla doccia e mi si pianta davanti. - Non sei tu che lo tradisci, sono io la moglie!- è nuda, a un passo da me.
-Sì, un po' lo tradisco anch'io. E' il mio capo. E io... non è una cosa buona.-
La voglia che avevo di lei è passata.
Era iniziato tutto come un gioco, ma ha preso una piega che non mi piace più. A volte ci si trova in impicci del genere senza volerlo. E' come partire con un piede e solo a metà del passo accorgersi che è quello sbagliato.
-Nel mio paese questo è sbagliato. Non si fa.-aggiungo.
Lei chiude la doccia e improvvisamente nella stanza è piombato il silenzio.
Mi stacco dal lavandino e faccio per andarmene.
- Non è strano?- dice, come a volermi fermare con la voce.
- Cosa?- chiedo, già sulla porta.
-Che mio marito ti abbia assunto in cava-
-...-
-Non ti sei chiesto perché ha scelto te e non quegli altri?-
-Che vuol dire? Perché gli sono piaciuto subito, me l'ha detto lui.-
-No, sei piaciuto a me. Io ti ho scelto. Ti ho scelto io.-
-...-
Ha raccolto i capelli in una coda e li strizza sul lavandino.
-Guarda che lo sa, di noi. Stai tranquillo, tra noi funziona
così...lui adesso è con un'altra.-
-...-
-Il giovedì è la nostra serata libera.- dice e mi si avvicina come a volere un bacio. Come se fosse tutto a posto.
Me la prendo. Ma per l'ultima volta.

                   Maria Luigia Longo, esercizio di Cover di un brano di "Scavare una buca" di Cristiano Cavina, ed. Marcos y Marcos