venerdì 17 giugno 2011

Silenzi - Parte II

[...] Il primo giorno in cui la vidi ero un po’ emozionata e aspettavo con ansia di conoscerla.

Arrivò. Esile come una foglia, accompagnata dalla madre, bionda anch’essa. Si tenevano per mano. Enza si aggrappava alla mano della mamma cioè. Il suo passo era esitante e un po’ arretrato rispetto a quello della donna. Le camminava leggermente dietro. Camminava piano. L’aspettavo in fondo al corridoio, davanti alla classe, in compagnia dell’insegnante d’italiano che lei già conosceva.

Presentazioni di rito con la signora bionda, strette di mano, raccomandazioni, apprensioni.

L’insegnante di classe le accarezzò la testa, ma senza toccarla, come se avesse paura di farlo. O solo forse per pudore. Mi presentò, lei mi guardò di sguincio, accostandosi ancora un po’ di più alla madre. Non osai fare lo stesso e la salutai solo a voce. Non sapevo se mi avesse sentito perché il vociare degli altri studenti era molto alto, più tardi avrei capito che in realtà Enza sentiva tutto.

L’insegnante la accarezzò ancora una volta e la guidò in aula. Nel momento del distacco dalla madre, ebbe un moto quasi felino: mugugnando un po’ le riafferrò la mano e se la strinse al petto. La donna subito, quasi d’istinto, passò la mano di Enza in quella dell’insegnante e le sussurrò qualcosa all’orecchio, in una sorta di passaggio di consegne tacito e usuale. Lei protestò ancora un attimo sommessamente con un grugnito impercettibile e agitando il braccio, come volendosi scrollare di dosso il peso di quella mano che la bloccava.

Io restavo lì, davanti a loro. Un po’ in disparte.

Poi fu tutto veloce: la mamma salutò veloce, un saluto a mezz’aria che rimase sospeso, non corrisposto da nessuno.

-Quale banco vuoi quest’anno, Enza?- chiese l’insegnante avvicinandosi al suo orecchio. Non rispose.

Scegliemmo l’unico libero, al primo banco.


Io, seduta in un banchetto a due posti con una ragazzina che neanche mi guardava e, intorno, la classe urlante che chiacchierava di vacanze appena trascorse.


Quella lezione passò così senza che io fossi riuscita ad entrare in contatto con Enza, mi scivolò dalle dita senza che potessi oppormi. La mia presenza, la mia voce all’orecchio non sembravano toccarla. Non ne era infastidita, semplicemente sembrava non la sentisse nemmeno. Rimase seduta, composta, incredibilmente dritta, con le gambe ben chiuse, serrate, i piedi dritti ben piantati a terra e i pugni chiusi, stretti sul banco.

Finii le mie tre ore e la lasciai lì, nel banco da sola. Rimase nella stessa posizione iniziale. Inerte. Mi sembrò ancora più piccola e più composta.

Da piccola riuscivo anch’io a rimanere per cinque ore seduta con le braccia conserte e le gambe unite, ginocchia praticamente attaccate e i piedi ben piantati a terra. Non mi muovevo neanche durante la ricreazione, rimanevo immobile nel mio banchetto color verde acqua e non andavo neanche in bagno.

-Riuscite a stare fermi?!-urlava la mia maestra. Io sì che ci riuscivo, eccome se ci riuscivo! E per tutte e cinque le ore. Dovevo educare il mio corpo a fare quello che dicevo io. Andavo in bagno quando tornavo a casa, dopo cinque-sei ore d’astensione. Dovevo educare la mia vescica a resistere. Tutto il mio corpo doveva resistere!

E tu, Enza, perché lo fai?

Perché costringi il tuo corpo a diventare quasi esanime?


All’uscita di scuola vidi Enza che attraversava il corridoio pullulante di studenti rumorosi aggrappata alla mano, al corpo della madre.

Lei, la madre, un sorriso dimesso, un po’ terrorizzata anche lei dal vociare convulso ed Enza, un’espressione incerta, cristallizzata su qualche pensiero tutto suo, o forse su niente.

Enza, capelli biondi legati dietro la nuca, con un’espressione cristallizzata sul niente.


Il giorno dopo, fronteggiando la sua resistenza silente, fui io a prenderle la mano e a condurla al suo banco e fui io alla fine della giornata a consegnarla nelle mani della madre. E accadde anche il giorno dopo e quello dopo ancora. Non per questo però potevo dire di essere entrata in confidenza con lei o di aver creato alcuna empatia. Certo, riuscivo io a parlarle all’orecchio senza paura e lei sembrava rispondere ai miei input, ma mai a parole. Mai che mi guardasse negli occhi!

Pugni chiusi, occhi azzurro cielo, liquidi, acquosi. Enza.


Dopo tre settimane dall’inizio della scuola la situazione non era mutata: Enza non mi aveva mai parlato, riusciva solo ad aggrapparsi al mio braccio quando doveva spostarsi da un punto all’altro dello spazio; la classe e anche gli altri insegnanti facevano volentieri a meno di lei e di me. Dopo un mese riusciva a rispondermi solo e no, in un sussurro lieve. Non aveva stabilito né con me né con nessun altro un linguaggio comunicativo. L’eloquio era scarsissimo, pressoché inesistente. Anche la grafia era incerta e sgraziata, inibita anch’essa. Avevo l’impressione che si fosse inceppata in lei proprio la formazione delle idee; non nascevano in lei neppure se qualcuno gliele suggeriva.

I suoi pensieri non fluivano regolarmente. Mi sembravano immobili. Fissi come lei.


A volte qualche ragazzina, incoraggiata da qualche insegnante, durante la ricreazione le offriva qualcosa da mangiare e prendendola per mano la portava fuori in cortile. Enza quasi senza resistenze si lasciava condurre, lasciando anche che le sussurrassero qualcosa all'orecchio. E di me non si curava neppure. Le guardavo allontanarsi piano e in maniera sbilenca dal fondo del corridoio. In un certo senso era vero come mi avevano detto all'inizio che preferiva circondarsi di donne. In realtà non è che le preferisse, semplicemente non ne aveva paura. Capii che aveva paura degli uomini.

Decisi così, parlandone con l'insegnante di lettere, che avremmo inserito anche Enza nei gruppi di lavoro e di studio nei quali era sempre divisa la classe. Perché lei era tutto sommato brava. Riusciva abbastanza bene in quasi tutte le materie. A casa studiava, anche se credo che l’aiutasse la mamma o che addirittura facesse i compiti al posto suo. In ogni caso non aveva grossi problemi e i compiti scritti non avevano grossi errori. L’insegnante di lettere mi disse che forse le piaceva scrivere, ma che non le dava da fare i temi perché poi non riusciva a capire la grafia e quindi non li correggeva. Questa cosa mi indignò e pretesi che Enza fosse trattata come tutti gli altri, senza sconti. I suoi lavori dovevano essere accolti con la stessa cura riservata ai lavori degli altri. Lo pretesi.

Enza non aveva bisogno di sconti.


Il suo problema era parlare a voce alta.

Il suo problema era far uscire il fiato da sé.

All'inizio il gruppo nel quale la inserimmo era formato solo da ragazze. Andavano tutte d'accordo e sapevano creare un clima sereno. Tutti i lavori venivano scritti su un cartellone che veniva poi esposto in classe e, a turno, ciascun componente del gruppo leggeva una frase. Nessuno doveva ridere di scherno, ma solo applaudire. Aspettammo con ansia che anche Enza si decidesse a farlo e ad un certo punto lo fece davvero: lesse a voce quasi alta la frase che aveva scritto lei stessa. Tutti applaudirono e lei sorrise. Come premio le regalai un diario e le chiesi di scriverlo se avesse avuto voglia. E solo se avesse voluto lo avrebbe fatto leggere a qualcuno.

-E’ un diario segreto...tutti hanno avuto un diario segreto da ragazzi. Anche io ne avevo uno alla tua età. Se ti va puoi scrivere quello che ti capita o quello che pensi o anche quello che ti passa per la testa in qualche istante fulmineo! Tutto quello che vuoi!- le sussurrai all’orecchio.

Lei mi sorrise senza guardarmi in viso. Le vidi l'orecchio diventare rosso. Forse si era emozionata.

Agl'inizi di dicembre aveva fatto qualche progresso e biascicava qualche parolina anche alle compagne. Anche se non aveva ancora una completa autonomia personale e aveva bisogno della mia mano per muoversi in mezzo alla gente.

Ad un certo punto inserimmo un maschio nel suo gruppo di lavoro, aspettandoci qualche reazione da parte sua, ma non arrivò. Continuò a fare bene i suoi compiti e ogni tanto a dire qualche parola. Poi provammo ad inserire altri due ragazzi nel gruppo e ugualmente non ebbe alcuna reazione. S'irrigidì invece quando la inserimmo in un gruppo esclusivamente maschile. Incominciò a mugugnare, a cercarmi e a prendermi di nuovo la mano. E a smettere di lavorare.


L'incontro con la neuropsichiatra non fu illuminante né risolutivo. La dottoressa non conosceva Enza, perché l'anno precedente era affidata ad un altro medico, e aveva con sé solo quella diagnosi che avevo letto anch'io. Grazie ai miei racconti, registrò i progressi della ragazza con un certo entusiasmo, ma niente di più. Non mi diede consigli pratici per arrivare veramente ad Enza, per farla uscire dal bozzolo che si era costruita. Anche a lei chiesi le cause del silenzio.

-Di sicuro possiamo dire che la bambina paga le conseguenze di una violenza sessuale subìta intorno ai cinque anni - disse.

Decisi di convocare la famiglia.

La madre trafelata e ansiosa arrivò nella sala insegnanti, con quel suo sguardo terrorizzato che ormai avevo imparato a riconoscere. Chissà quanta della sua ansia riversava su Enza!

Stretta di mano e poi subito -E’ successo qualcosa?!- accorata. [...] TO BE CONTINUED...


Brano tratto dal racconto inedito Silenzi di Maria Luigia Longo



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