mercoledì 8 giugno 2011

Per caso. Ogni cosa è al suo posto.



Non avevo mai considerato prima d’ora l’increspatura del suo sorriso e mai avevo pensato che potesse essere così importante per me.

Tornavo nell’isola dopo appena un anno e già mi invadevano i ricordi.

Ricordo che riprendevo allora il controllo della mia vita quando lo incontrai. Per caso come tutte le cose più naturali crediamo avvengano.

Ero da qualche ora sull’isola di Lie e non conoscevo nessuno. Viaggiare in una sorta di solitaria compagnia dei luoghi era caratteristica della mia indole fin da giovane. Amavo incontrare persone nuove perché con loro avevo la sensazione di un nuovo inizio. Potevo giocare a raccontarmi in nuove forme.

Mi trovavo ora sul terrazzo a guardare, di fronte, il mare.

Blu, profondo, sconfinato.

Arrivare all’isola proprio dal mare era l’unica possibilità per accedervi, sebbene vi fosse un vecchio aeroporto usato però solo da alcuni elicotteri privati. A me era sempre piaciuto arrivarvici in nave. E anche questa volta era stato così.

Avevo deciso di imbarcarmi sull’Imperial, nave libica in rigoroso stile anni Ottanta, non troppo grande e non troppo affollata. Avevo scelto l’Imperial perché aveva a bordo personale attento e discreto e, in quella stagione, quasi esclusivamente ospiti stranieri - per lo più inglesi - che prediligevo ai miei chiassosi e invadenti connazionali. Giunti al porto di Mentiral, ho preso un taxi e in poco meno di venti minuti ho raggiunto il mio albergo, percorrendo una strada fatta di curve e tornanti a strapiombo sul mare. L’unica strada che dal porto dava accesso alla zona alta dell’isola.

Conoscevo bene quei luoghi: ci avevo trascorso quasi tutte le estati con la mia famiglia quando ero adolescente, prima che ci trasferissimo tutti a Bruxelles e che mia madre morisse e mio padre vendesse la villa di famiglia. Non ci tornai più.

Lo scorso settembre poi avevo ripreso la volta dell’isola di Lie con l’idea di passare una vacanza rilassante.

L’isola, che dall’alto poteva sembrare un pugno verde posato su uno specchio che rifletteva il cielo, si sviluppava nell’estensione di un’unica località. Soleggiata e verdeggiante, la cittadina si estendeva lungo il crinale orientale di un’altura: procedeva abbandonata e molle come una viziosa e attempata aristocratica in compagnia del suo giovane amante. Il fulcro della vita dell’isola era la zona del porto, con i suoi bistrot, i suoi circoli privati e specialmente il casinò, l’edificio più antico di Lie. Il suo stile coloniale dava ragione a quanti raccontavano che il primo edificio costruito nell’isola fu proprio il casinò, luogo semiclandestino di ritrovo di importanti personalità della vita politica, militare e dell’alta finanza internazionale, provenienti per lo più dal vecchio continente. L’isola, appartata e un po’ nascosta, divenne ben presto meta ambita di svaghi più o meno leciti, tra cui appunto il gioco d’azzardo. A quei tavoli verdi, dicono, si decisero spesse volte le sorti di intere nazioni. Una trentina di anni fa, poi, divenne luogo preferito delle vacanze mondane di famosi personaggi del cinema americano.

Adesso, ben lontana dagli oscuri fasti di un passato però non troppo distante, era una ridente località di villeggiatura di intere famigliole piccolo-borghesi in cerca di relax.

E tra queste persone c’ero anch’io.

Il mio matrimonio era finito nel peggiore dei modi: affidandone le sorti ad un avvocato. Era durato poco più di tre anni, l’ultimo dei quali si era trascinato in un continuo ed estenuante sforzo a farlo durare. Non erano mancati i tradimenti - puntualmente scoperti e anzi con nessuna intenzione di tenerli nascosti - e neanche gli insulti e le vendette legali. Alla fine lasciarci fu piuttosto un sollievo per entrambi. Dalla data della separazione era già passato quasi un anno e io non riuscivo ancora a fare il punto della mia vita, non sapevo ancora cosa volevo.

Avevo scelto l’isola per rilassarmi e per pensare un po’ a me e invece avevo incontrato Miedo e l’estro del suo sorriso.

L’avevo scorto per caso un pomeriggio sul molo in mezzo ad altra gente che però non sembrava essere in sua compagnia, intento a guardare una nave nella difficoltà di ormeggiare. Abbronzato, alto, crucciato, indossava pantaloni corti e maglietta color avorio, sotto la quale si intuiva un torace ben delineato. Aveva gesti flemmatici e sicuri, introversi. Capelli neri tagliati molto corti, quasi rasati. E una collana di semi di girasole essiccati che gli avvolgeva il collo slanciato.

Era differente dagli altri. Non pareva appartenere a quel luogo. Aveva colori e tratti somatici diversi da quelli degli abitanti dell’isola. Il particolare più sorprendente erano gli occhi grigio-verdi dal taglio leggermente asiatico sopra un naso largo africano.

Insolito.

Io, su una panchina poco distante, ad aspettare il mio taxi.

È l’uomo più bello che abbia mai visto, pensai - con una punta di raccapriccio – prima di salire sull’auto nera che era venuta a prendermi.

-Dove la porto, signore?- chiese l’autista.

-Hotel Deseo, grazie!-

Il signore ero io.

Un distinto trentacinquenne della Milano bene. Bello, curato e molto sicuro di sé, o così il mio status mi imponeva di essere.

L’auto partì nella direzione opposta a quella del porto e senza troppa fretta s’inerpicò su per quella strada che più volte avevo fatto in bicicletta con mio fratello Riccardo per raggiungere il belvedere. Alla mia destra il mare e dall’altra parte le ricche abitazioni dei villeggianti facevano da cornice ad una strada erta e sinuosa. Le ville lasciavano intravedere una notevole sovrapposizione di stili tanto da assumere un aspetto piuttosto eccentrico che non avevo visto in nessun’altra parte del mondo.

L’Hotel Deseo era posto sulla parte più alta dell’isola, lanciava un occhio al porto, dominando il mare.

Vi arrivai che era già quasi ora di cena. Gli ospiti stavano approssimandosi ad entrare nel salone, io invece salii in camera a rinfrescarmi e cambiarmi per la sera, deciso a non cenare in albergo.

Dal terrazzo riuscivo a percepire l’atmosfera festosa della zona del porto, da cui salivano suoni di danze e ritmi mediterranei. Percorrere quelle stradine in direzione del porto di sera e a piedi mi lasciava sempre una benefica sensazione di appartenenza a quei luoghi. Camminavo con dentro un senso non troppo inespresso di furiosa ricerca: mi interessava tutto, volevo provare ogni cosa.

Provavo i cibi tipici, le bevande, i vini, i dolci. Tutto. Visitavo più e più locali ogni notte, andando a dormire quasi sempre dopo l’alba. Tra tutti preferivo l’Ars Amandi, piccola tè-eria con bagno turco di giorno e casa d’appuntamenti di notte. Trascorrevo spesso le mie ore notturne in compagnia di Miriam, giovanissima e avvenente croata, che mi conduceva, con il suo elisir, dritto dritto nell’antro di eros. Quando ero con lei non parlavamo mai, non dicevamo neanche una parola, ciascuno intento forse ad ascoltare il proprio respiro. Io ascoltavo il mio dolore che, nell’orgasmo della carne, mi sembrava più denso. La sceglievo con il solo cenno del capo o con un sorriso e la pagavo senza guardarla in viso. Quando all’alba la lasciavo non sapevo ancora che vi sarei ritornato la notte seguente, poi puntualmente tutte le notti, sul finir della notte, ero con lei, in quella stanza che profumava di incenso ed olî essenziali.

Di giorno invece preferivo restare da solo a prendere il sole su una delle tante spiagge un po’ nascoste dell’isola. Se il lato orientale era occupato dalle ville, quello occidentale, invece, era tutto un susseguirsi di impervî scogli che, alternandosi con radi arboscelli, nascondevano spiagge deserte. Amavo sprofondare nell’abbraccio del sole. Lì affondavo il capo; immerso nel riverbero dei pensieri, mi pareva di percepire una nuova dimensione.

Lì, in uno stato intermedio tra la veglia e il sonno, tra la distrazione e la riflessione, intuivo l’esistenza.

E quell’appercezione inattesa mi dava il senso del vivere.

Quella parte dell’isola non era affatto cambiata. Era rimasto tutto più o meno come vent’anni prima. La vegetazione forse era un po’ meno rigogliosa, tanto che non riconoscevo nessuno dei sentieri che da lì partivano verso l’interno. Una mattina verso mezzogiorno decisi di andare in quella che era la spiaggia della mia famiglia quando ancora possedevamo la villa. Avevo all’improvviso voglia di rivedere la casa. Da quando era stata venduta non ne avevo saputo più nulla.

Fu un po’ difficile all’inizio riuscire ad individuare fra i tanti presenti ora il sentiero per accedervi. Quando lo trovai riconobbi improvvisamente tutto: il tracciato sabbioso, gli alberi, la luce, l’alternarsi delle zone d’ombra a quelle assolate, il lieve frusciare dei rami frondosi, cinguettii nascosti e persino la presenza del mare alle spalle. Anche la distanza tra la spiaggia e la villa mi sembrò esatta: lì dove mi aspettavo, dove sapevo essere, trovai la villa.

Era immutata: lo stesso colore di cotto delle facciate, le stesse imposte blu, ora serrate: solida come un tempo.

Il cancello principale era chiuso e tutto all’interno sembrava tacesse. Era deserta ma non mi sembrava disabitata.

Feci un giro intorno ad essa, ripensando a tutte le volte che l’avevo fatto in bicicletta con Riccardo. Rividi tutto, riascoltai le voci e i suoni di un tempo. Sentii di nuovo mia madre ridere e rividi me ridere con lei.

A quindici giorni dal mio arrivo sull’isola, non mi aveva ancora tentato l’idea di visitare il casinò. Non ero un grande appassionato di giochi a scommessa né di quel genere di ambienti. Una sera però decisi di andarvici, spinto anche dall’invito di Eddy e Louise, una coppia di affabili svizzeri che alloggiavano nel mio stesso albergo, con cui da qualche giorno avevo preso l’abitudine di pranzare. Tentai la sorte più d’una volta ma con scarsi risultati. Annoiato e scettico dopo un po’ decisi di andare a bere qualcosa fuori da lì. Sulla porta, nell’uscire, fui urtato da Miedo: camminava veloce e un po’ proteso in avanti. Mi guardò a lungo con un sorriso appena accennato sulle labbra.

Provai subito un singolare senso di attrazione nei suoi confronti. Mi incuriosiva.

Velocemente mi infilai in uno dei vicoli nei quali si aggomitola il centro storico, sgattaiolando come un fuggiasco. E di un fuggiasco conservavo il medesimo senso di incerta inquietudine. Era la stessa smania che in genere mi spinge a fare. Era eccitazione. Nella mia vita ho sempre ostentato un certo atteggiamento d’apparente indolenza, ma in realtà frutto di una ferrea propensione al raccoglimento. Ed è proprio quella sorta di stato febbrile che mi fa agire.

Nelle ore successive non feci altro che pensare a lui e la notte mi scivolò addosso prendendo lo stesso odore di quell’uomo. Andai da Miriam col desiderio di Miedo.

Il giorno seguente, durante una delle mie solite passeggiate alla ricerca di una spiaggia appartata, lo scorsi nel mentre di un tuffo. Un costume succinto lasciava libere tutte le proporzioni del suo corpo, ben in mostra e indorate dal sole. Si divertiva con slanci vivaci a giocare con l’acqua in compagnia di un amico. Mi avvicinai a loro, cercando di attirare la sua attenzione. Mi vide, mi sorrise - certamente riconoscendomi - ricambiai, mi guardò di tanto in tanto per un lasso di tempo che a me sembrò infinito e che invece quasi di colpo ad un certo punto terminò: uscì dall’acqua e seguito dall’amico, senza guardarmi neanche per un attimo, s’inerpicò per uno dei sentieri che davano all’interno e portavano alle abitazioni. In un istante sparì nella boscaglia, lasciandomi lì, bagnato e insoddisfatto.

I giorni seguenti mi videro aggirami per l’isola come un randagio a ripensare a lui. Tornai più volte nei posti dove l’avevo visto: il porto, il casinò, la spiaggia, senza mai incontrarlo.

Da quel momento l’isola di Lie mi sembrò noiosa e inutilmente lasciva.

Dopo circa una settimana di tedio in cui cominciavo ad ipotizzare l’idea di spostare le mie vacanze in una delle isole limitrofe, decisi di fare un altro giro nei dintorni della villa. Ci ero tornato diverse volte in quel mese senza mai vedere qualcuno che la abitasse. Una mattina invece la trovai finalmente aperta: imposte, finestre e vetrate spalancate, musica che proveniva dall’interno, una sdraio distesa nel giardino.

-Buongiorno!- una voce si levò verso di me dall’interno.

Era Miedo, che si staccava da una siepe e mi veniva incontro.

-Salve!- risposi, masticando un po’ d’imbarazzo - Questa villa apparteneva alla mia famiglia quando ero bambino - mi affrettai ad aggiungere.

-My father won it in a poker fifteen years ago -. Disse in uno strano inglese,

I minuti che seguirono furono tutto un pretesto per poter avvicinarci il più possibile: l’invito ad entrare e a visitare la casa rimasta peraltro identica a come la ricordavo, l’aperitivo, la chiacchierata fatua sulla vita di Lie e sugli usi e costumi dei turisti, le mie vacanze e le sue, il suo lavoro e il mio, la mia famiglia e la sua, la sua cordialità e il mio piacere nell’accoglierla. Tutto ci condusse senza troppi preamboli ad amarci lì, su quel pavimento che più volte mi aveva visto giocare con mia madre. Ora giocavo con Miedo in quel luogo che rappresentava per me qualcosa di molto simile all’idea di casa. Dopo una lieve carezza, subito accolsi il suo corpo nel mio senza trovarlo sconosciuto o estraneo, penetrando a mia volta la sua carne con un abbandono del tutto nuovo. Si appropriò di me con una forza cui non ero abituato, come scavandomi anche l’anima. Fui accompagnato in un istintivo viaggio a ritroso verso la coscienza, una intensa caduta in me.

Quella prima volta passammo insieme anche tutta la notte e il giorno seguente.

Miedo oltre che un abile amante era anche un amabile affabulatore, mi raccontò vari aneddoti della sua vita, introducendomi nel suo mondo. Mi parlò di sé: era figlio unico e unico erede del patrimonio familiare. Ad intervallare i suoi racconti erano le mie parole e i miei ricordi.

-I never knew my mother, mia mama - mi disse quando gli parlai della mia – She has never lived with us. She wasn't the wife of my father -.

E mi mostrò una foto di una bellissima donna asiatica, l’unica cosa che possedeva di lei.

-Where is she now ? – chiesi

-I don't know. I don't know much about her, except that she was the daughter of a diplomat...un ambasciadore... and she met my father on a journey, it was love between them but when I was born she went back to his country and left me here...qua a Lie

Nei giorni seguenti visitai con lui posti dell’isola che non avevo mai visto. Miedo mi era accanto come una presenza silenziosa e attenta e allo stesso tempo sfuggente e ambigua. Assomigliava molto all’isola.

E proprio come l’isola anche lui nascondeva un lato oscuro che ogni tanto affiorava. Ogni volta che mi guardava avevo come l’impressione che volesse parlarmi di qualcosa che poi desisteva dal dirmi. Avevo la netta sensazione che di me sapesse molto di più di quanto lasciasse intendere. Prolungai la mia permanenza nell’isola anche per scoprirlo. Era piuttosto difficile però screpolare la sua facciata granitica. E questo mi irritava.

Una sera mentre passeggiavamo in prossimità del porto, chiacchierando amabilmente, lo provocai baciandolo spudoratamente davanti ai passanti. Non gradì il mio slancio e visibilmente irritato mi abbandonò lì, dirigendosi verso la sua auto.

-Cos’è, il signor Miedo non gradisce l’eco dei suoi atti?- lo canzonai, in italiano questa volta, raggiungendolo.

-Non quando gli atti sono privati, private – replicò indignato, in italiano anche lui.

-O forse quando sono privati del tuo controllo – aggiunsi

Mi guardò sbalordito, con un sorriso tirato come non riconoscendomi. Forse non capì il doppio senso di “privati”, ma io credo di sì.

S’infilò in macchina e sparì.

La notte scivolò indolore e il giorno seguente iniziò con una rivelazione. Andai molto presto da Miedo per scusarmi e per preannunciargli la mia partenza. Ero stanco di Lie, del mare e anche di lui.

-Perché?-mi chiese riferendosi al mio gesto.

-I don't know. Tired, perhaps, to a situation in stasis ...I don't know....I came to this island to relax and instead I found something on which I've always been silent -.

Restava a guardarmi in silenzio.

-I get home. I will take with me more awareness. And the strange effect of having lived in this house again.And I will take everything in it. Memories, voices, meetings ..

-Would you really take with you everything that's in it? Then you should know that also contains a game of poker, played exactly thirty-six years ago. It was a long game played by my father, two British economists and an Italian ambasciadore who you should know very well

- Mio padre?

- Yes, tuo papa. Or rather, whom you have always thought was your father. The victory went to my father. The loot was very rich: a night with a woman whose my father was in love. Can you guess who she was?

- Come faccio a saperlo?... How do I know?

- Tua madre.

-

- The fruit of that night is you. You are the son of that game and of my father

-

- Fifteen years ago, the revenge: the winner was once again my father... nostro papaand this time he won the house. Now you really know everything, dear Giacomo.

Do you want to leave anyway? - E lo disse con un ghigno.

Per la prima volta in vita mia forse persi davvero il controllo.

Miedo ora giace nel giardino della villa, sotto i fiori e sotto il sole di Lie.

A volte ripenso a lui e un po' mi dispiace per quello che è successo. Ma non l'ho fatto per me, né per mio padre -che non era mio padre- ma per mia madre che nessuno di loro aveva saputo trattare meglio di un pegno di gioco.

E se qualcuno si chiedesse come mai non sono in galera, rispondo che - nel mio mondo- è stato facile dimostrare che quello straniero dalle ambigue abitudini sessuali mi aveva violentato ripetutamente e che per legittima difesa ho dovuto ucciderlo.

E adesso, che ogni cosa è al suo posto, posso finalmente riprendere la mia vita.


Tratto dalla raccolta inedita Trilogia dell'incontro

di Maria Luigia Longo


2 commenti:

Anonimo ha detto...

Posso dire... PORCA VACCA!! mi sconvolgi ogni racconto che passa... WOW!

Maria Luigia Longo ha detto...

bene! continua a leggermi e vedrai!!!