lunedì 26 dicembre 2011

sabato 17 dicembre 2011

Corpo della fuga / Andante con brio



-Alla peggio non diventerai pianista di successo, ma certamente imparerai a suonare uno strumento che ti farà compagnia!-
Queste le parole di sua madre tutte le volte che Erica tentava di spiegarle che di suonare il pianoforte a lei proprio non importava e che, anzi, era davvero stufa delle lezioni del maestro di musica, barbuto e severo, e di tutte le ore che perdeva per i solfeggi e gli esercizi. Il ticchettio del metronomo le era diventato insopportabile e si insinuava in molti suoi pensieri rendendoli ossessivi. A volte di notte sognava con angoscia perfino le note: si vedeva rincorsa in uno spazio neutro da frotte di minime, semiminime, crome, semicrome...

Sarà stata la sua figura esile, gli occhiali spessi e tondi e l’aria svagata di chi non sa mai bene dove si trovi a indurre la madre di Erica a iscriverla fin dall’età di sette anni alle lezioni di pianoforte del maestro Biagio Aigus, noto direttore d’orchestra.
-Sì, non avrai forse dita affusolate e lunghe come le pianiste vere, ma - anche il maestro Biagio è d’accordo con me - l’esercizio fa miracoli! Fa-mi-ra-co-li, Erica! - E le apriva in fretta lo sportello dell’auto per farla scendere al volo e non arrivare tardi alla lezione.
E, tutte le volte ancora dopo tanti anni, Erica sostava un attimo davanti alla porta di casa Aigus prima di suonare il campanello e cercava di trovare un modo per non entrare. Sparire, squagliarsi di là, vaporizzare anche... Tutto pur di non entrare. Nemmeno i fioretti fatti ogni anno in omaggio a Santa Cecilia, protettrice dei musicanti, erano bastati a salvarla. Proprio niente. E puntualmente un colpo di clacson proveniente dall'auto della madre alle sue spalle, ancora davanti al cancelletto d'ingresso, la faceva riavere dai suoi propositi. Ma qualcosa di peggiore del clacson ancora c'era: il campanello del maestro Aigus intonava l'attacco della primavera di Vivaldi; suggestione o no, a lei venivano letteralmente i brividi.

Le lezioni invernali poteva anche sopportarle, ma erano quelle estive che proprio non le andavano giù: per due ore di lezione alla settimana doveva rimanere rinchiusa in casa a studiare tutti i pomeriggi! E detestava anche quei ragazzini che invece tornavano dal mare tutti sudati, abbronzati e festosi, ai quali le madri non avevano imposto neanche di esercitarsi con la diamonica nell’ora di musica a scuola. Li sentiva ridere e schiamazzare sotto la sua finestra e rincorrersi fino in piazza. Le loro voci s'intrecciavano ai suoi sol in 2/4 del solfeggio e puntualmente li superavano, portandola fuori tempo.
-Su, Erica, impegnati! Quest’anno hai il concerto di fine corso e poi l’anno prossimo ti iscriviamo al conservatorio. Finalmente avremo una pianista professionista in famiglia! - esultava la madre e, dicendolo, stringeva leggermente perfino il pugno in segno di vittoria.
Non vorrai mica fare come la zia Ada che si è praticamente bruciata la carriera al suo saggio di fine corso perché si è fatta prendere da una crisi di panico e per poco non se la faceva addosso?! Erica, quasi le-tte-ral-men-te addosso, intendo. E adesso, che ha più di sessant’anni ed è sola come un cane, l’unico passatempo che ha sono le parole crociate!-, concludeva scuotendo la testa in segno di profonda disapprovazione.
Be'... no, cara, non solo le parole crociate, adesso si è evoluta: si cimenta anche con il Sudoku! - interveniva suo padre, col suo humor inconciliante, dalla poltrona e da dietro il solito quotidiano.

L’idea di esibirsi di fronte a duecento persone non la turbava più di tanto, era la prospettiva di otto anni di conservatorio che invece la atterriva completamente. Immaginava già le sue notti costellate da caterve e caterve di note. Ma le madri, si sa, oltre ad avere più esperienza di te, ti regalano con i loro sproloqui anche idee geniali per opportune vie di fuga. Basta ogni tanto ascoltarle. Così, durante tutta la giornata del fatidico concerto di fine corso, Erica si allenò per un memorabile e definitivo addio alle scene bevendo quasi quattro litri di acqua e riservando al suo pubblico una liberatoria minzione al suono di un accordatissimo do-sol, do-sol, do-sol con la mano sinistra, mentre - con buona pace del maestro Biagio Aigus, noto direttore d’orchestra - la destra abbandonava una scala a toni alternati già in cerca di altri passatempi.



               Riscrittura di Corpo della fuga / Andante con brio, Maria Luigia Longo, 2002-2011.


sabato 3 dicembre 2011


Ecco la copertina della nuova Antologia edita dalla Giulio Perrone Editore di Roma nella quale è stato inserito il mio racconto Ritratto di un'attesa

E' possibile acquistare il volume ordinandolo sul sito della casa editrice o direttamente da me.  



A presto e buone letture a tutti!






martedì 29 novembre 2011



Cari amici,
vi comunico con immenso piacere
 che giovedì 1 dicembre alle ore 18,30 presso la Libreria Mangiaparole (Via Manlio Capitolino 7/9 Roma – Zona Metro Furio Camillo) avrà luogo la presentazione dell'Antologia di racconti brevi, 
edita dalla Casa Editrice Perrone Editore di Roma
nella quale è stato inserito il mio racconto Ritratto di un'attesa

Interverranno Cristiano Armati, Giorgio Manacorda e Giulio Perrone. 


Vi informo anche che è possibile acquistare il volume in quella sede
oppure ordinarlo direttamente sul sito della casa editrice o anche direttamente da me via e-mail.

A presto e buone letture a tutti!



giovedì 24 novembre 2011

Vuotami di te, Sgombro il campo, Sotto una soleggiata genia, ...


Vuotami di te
e le tasche
oggi
degli affetti miei personali
a tutti gli effetti
spersonalizzati.
         Vuoto il-limite
          e sgorgano parole


Sgombro il campo
da smanie sottintese
che solo per pedanteria
affiorano a pena
incespicando
col rossore di una vergine
forse già troppo matura
e incanutita sdentata miope.


Sotto una soleggiata genia
si affollano incaute appariscenze e
tramortite presenze
per dissentire ancora una volta.


Con te con-te(n)-ta sto e
umana
ma priva(-ta) forse meglio e
migliora-bile sicura-mente.
Sicura mente.

          (Maria Luigia Longo, Per prove e tentativi, 2000)

domenica 20 novembre 2011

Troppe volte


Troppe volte mi è parso di
stringere il desiderio
materializzato e di sentirlo
esistere.
Ho mangiato affamata in
piatti di bontà
invitata a popolosi banchetti.

Puntualmente ho vomitato
tutto
lasciando cadere
nel passato l’appetito.

         (Maria Luigia Longo, inedito 2001)

domenica 13 novembre 2011

PARIS, OÙ ES-TU?







Quando arrivava aprile io ero troppo troppo contento di essere vivo. Guardavo il cielo che diventava chiaro quasi di botto... puf! ed era giorno!
La mattina mi svegliavo presto, alle prime luci e aspettavo che mia mamma rientrasse dalla ronda notturna. A quel tempo lei e altre donne dell'associazione Lea si erano messe in testa che dovevano pattugliare il quartiere.
-Il quartiere è nostro! Capisci, Maurice?- mi diceva le prime volte. - Non dobbiamo abbandonarlo!
- Il quartiere è una merda- le rispondevo - Qui non c'è un cazzo da fare. E' una galera.-
- C'è molto da fare, invece!-


Quella matta di mia madre si era messa in testa di fare il giustiziere della notte, armata solo di taccuino e biro. Usciva di casa verso mezzanotte e s'incontrava con Sophie, Fatima, Zahra, Patricia e le altre. Erano in quindici sedici all'inizio... e, d'accordo con l'assessore alla Tranquillità Pubblica di Montreuil, passavano la notte ad annotare sul taccuino tutto quello che vedevano di strano per le strade del quartiere e segnalavano problemi, mancanze...spacciatori compresi!
- Com'è andata stanotte?- le chiedevo quando rientrava
- Maurice, stanotte abbiamo contato che c'è un lampione ogni due chilometri di strada. Possibile?! Come fai ad evitare le aggressioni se intanto qui è tutto buio! - 

Lei se la prendeva davvero. Ci credeva tanto nel quartiere.
E voleva che anche io facessi qualcosa di buono per migliorare le cose. Ma io in quel periodo ero un casino: avevo lasciato la scuola e non avevo niente da fare per tutto il giorno. Trovare un lavoro come si deve era praticamente impossibile, prima di tutto perché avevo solo sedici anni e poi perché di lavoro in giro non ce n'era, almeno per me.


All'inizio mi alzavo tardi, quasi a ora di pranzo e scendevo direttamente giù a mangiare un kebab o qualsiasi cosa fosse commestibile e poi me ne andavo a cazzeggiare in giro con i miei amici. Giocavamo quasi tutto il tempo a pallone: all'epoca adoravo Lilian Thuram e lo imitavo in tutto e per tutto. Se lo beccavo in tv o su qualche manifesto in centro mi immobilizzavo davanti a lui. Ma anche io ero bravo a giocare a calcio. Ero magico nel corpo a corpo, nessuno mi sfuggiva. Giocavo con l'uomo volante: driblavo chiunque con l'aiuto del muro di un palazzo, o del palo della luce o del marciapiede che, col rimbalzo, mi facevano da compagno di squadra. Eravamo una coppia infallibile, l'uomo volante e io. 
A volte con i miei amici ci esercitavamo sullo skateboard mentre ascoltavamo musica rap o R&B, proprio di fronte a Rue de l'Acacia, dov'è ancora oggi il ghetto dei rom. Ci mettevamo quasi vicino al cancello del loro recinto e Ali partiva con i suoi rap. 


A volte mi fermavo a parlare con Moustapha, un vecchio cieco che veniva, anche lui come noi, da Algeri. Lui era arrivato negli anni '70, mamma lo conosceva bene perché erano arrivati insieme. Mamma aveva cinque anni e lui invece era già più che un ragazzo. Li sistemarono tutti qui, a Montreuil. Avrebbero dovuto starci poco, due tre anni al massimo e invece se li erano dimenticati qui.
- Mousta, ma perché non hai preso e te ne sei andato?- gli ho chiesto una volta.
- Ci ho provato, Maurice... Ci ho provato due o tre volte. Ma dove me ne potevo andare? Da quando sono diventato cieco, poi...- E finiva sempre col raccontarmi i suoi malanni: la perdita della vista, poi del lavoro e poi la morte della moglie, proprio lì nel quartiere. Lui se ne stava sempre seduto sul marciapiede sotto il mio palazzo e qualche volta qualcuno gli portava da mangiare, anche mamma, o gli faceva l'elemosina. Lui non chiedeva niente però e in effetti non so come si mantenesse.
A me piaceva ascoltarlo, ma soprattutto quando mi raccontava dell'Algeria e dei primi tempi in cui era a Parigi: era così bravo che mi faceva vedere i colori, mi faceva sentire i profumi, sentire le voci...e il suo francese ancora un po' da straniero mi faceva viaggiare.


Da quando mamma aveva iniziato a fare la volontaria delle ronde però continuavo a pensare sempre a quello che mi raccontava e a quando mi diceva che è importante raccontare le proprie strade. Mamma era brava a raccontare qualsiasi cosa.
- La periferia, Maurice, non è solo quella che raccontano in tv o quelli che vivono in centro!-
E un po' aveva ragione, anche se all'epoca io la rabbia la sentivo davvero e non perché me la raccontavano quelli di Montparnasse. Anche perché io quasi mai andavo in centro o leggevo i giornali. Lei invece leggeva tanto, sopratutto da quando le avevano dato il part time e aveva tanto tanto tempo per fare quello che le piaceva. A volte s'incazzava tanto per alcune frasi che dicevano su di noi che abitiamo nelle periferie. Che eravamo tutti delinquenti, tutti spacciatori e che violentavamo le donne. Sì, a volte sentivo di fatti del genere, ma io non c'entravo niente con quelle storie e neanche i miei amici.
Una volta, ad esempio, si è incazzata davvero tanto perché Sarkozy aveva definito racaille, feccia, i ragazzi delle banlieue.
-Tu ti senti una feccia, Maurice?- mi chiese
- Io veramente mi sento una merda, mamma- dissi ridendo, ma non per quello che intendeva quello stronzo di Sarko. Mamma quella volta s'incazzò pure con me per quello che avevo risposto, anche se l'avevo detto ridendo.
- Solo uno gli ha risposto per le rime: il tuo Thuram!- concluse trionfante.
Più tardi ho saputo che, una volta diventato presidente, gli ha offerto un posto come ministro della Diversità, ma che Lilian l'ha garbatamente mandato a fanculo.


Sarà stato perché mamma mi martellava con le sue storie, ma da un certo momento in poi guardavo il quartiere in un altro modo: anch'io notavo quello che non andava e lo raccontavo agli altri. Non scrivevo niente, scrivere proprio non mi piaceva, ma glielo raccontavo a parole.
Una volta, di fronte al muro della scuola, avevo letto la scritta: 'FRANCIA BIANCA, RABBIA NERA' e, a fianco, una marea di parolacce. E mi era venuta l'idea di fotografarla. Ma non avevo una macchina fotografica e allora chiesi ad Hassan se poteva procurarmene una tranquilla. Lui lo chiese a suo cugino e, nel giro di due giorni, ebbi la mia prima compatta Canon! Neanche a dirlo e mia mamma me la fece buttare in fondo alla Senna e mi fece sentire come se avessi compiuto il delitto del secolo.
- Maurice, non è così che bisogna agire. Su, pensaci bene!-
E io ci avevo pensato bene e avevo deciso di restituirla ad Hassan, ma poi mi ero un po' vergognato e non l'avevo mai fatto. Me la tenevo nello zaino ma non fotografavo niente. L'unica foto che avevo fatto era quella scritta sul muro. E per tanto tempo fu così: me la portavo in giro ma non fotografavo proprio niente. Però continuavo a pensarci.


A un certo punto mi capitò di trovarmi un lavoretto. Mi era capitato davvero per caso mentre una domenica con mia mamma stavamo andando a trovare una sua amica che abita a Le Marais. Scesi dal metro, sulla vetrina di una boulangerie, c'era scritto che cercavano un ragazzo per le consegne nel quartiere. Il giorno dopo iniziai. Mi pagavano quattro spiccioli, ma puntuali ogni settimana e io mettevo da parte quasi tutto per comprarmi la mia fotocamera digitale. Quando fui abbastanza vicino alla cifra che volevo raccogliere mi fermai sulla Senna e lanciai giù quella che mi aveva dato più di quattro mesi prima Hassan.


Così iniziai a far foto. Finito il lavoro mi fermavo a fotografare intorno alla boulangerie: le case, le panchine, gli alberi... le persone: i ritratti mi venivano troppo bene! Dopo qualche mese avevo già raccolto migliaia di foto, anche di turisti. Avevo, poi, fotografato più di duecento scorci sulla Senna. Meravigliosi!
Quando arrivava aprile ero troppo troppo contento: c'era una luce bellissima e faceva notte più tardi. E c'erano di quei tramonti...incredibili!


Quando tornavo a casa a volte, prima di salire, raccontavo tutto a Mousta e certe volte gli descrivevo le foto. E col tempo era proprio lui che me lo chiedeva.
-Dài, Maurice, raccontami qualche foto di oggi!- mi diceva.
- Bella Parigi, no?- dicevo prima di andare e lui rispondeva sempre - Eh sì, bella Parigi...ma dov'è Parigi, Maurice?- e lo ripeteva due o tre volte, ma dopo la seconda io lo sentivo di meno perché ero già in corsa verso casa.


In quel periodo ero davvero felice.
E anche mia mamma credo che fosse contenta della piega che stava prendendo la mia vita.
- Mamma, hai visto?- le dicevo quando guardavamo insieme le foto
- Guarda questa! Bella, no?- e lei sorrideva e annuiva.
-Quanto è bella Parigi!- dicevo
- Sì, è bella, Maurice, ma perché non fotografi anche Montreuille? E' qui che viviamo. Parigi arriva fino a qui, in fondo.- mi disse una volta.
La cosa all'inizio non mi convinceva molto. Cosa dovevo fotografare? I palazzoni sporchi e cadenti, le scritte sui muri contro la polizia, i ragazzi che si facevano negli androni? Io volevo fare foto artistiche e lì di arte ne vedevo ben poca. Poi però una volta nel primo pomeriggio, mi fermai non so perché a guardare Mousta da lontano. Ero dall'altro lato della strada e lui non se n'accorse, non poteva neanche sentirmi. Il suo corpo, che a me sembrava un mucchietto d'ossa gettato sul marciapiede, nella luce lunga di quelle ore proiettava sul muro del palazzo, alle sue spalle, la sua immagine un po' piramidale. Lui se ne stava seduto a terra a gambe incrociate e la sua ombra, un po' più spostata, dietro. Come a fargli compagnia.


Ecco, di colpo quell'ombra mi è sembrata bellissima. E mi è sembrato che anche il palazzo avesse una sua dignità con quella sagoma nera proiettata nell'angolo in basso a sinistra. A me di Mousta piacevano le braccia magre magre e lunghe, il viso rugoso e i capelli bianchi in contrasto con la pelle scura e soprattutto i suoi movimenti lenti e flessuosi. Ma quello che da allora mi piacque di più di tutto fu la sua ombra nera sul muro: una macchia scura dai contorni sfumati immersa nella luce del sole. E l'ho fotografata.
Non ho mai fotografato il vecchio Mousta, forse per rispetto e per non essere invadente, ma la sua ombra invece sì. Più e più volte. Non so se l'ho letto o è una mia invenzione, ma avrei voluto prendere una matita e tracciare il contorno della sua sagoma sul muro e trattenerla lì per sempre. Anche adesso che Mousta non c'è più e io ho imparato a scovare l'arte dove pochi scommetterebbero che ci fosse.

                (PARIS, OÙ ES-TU?, Maria Luigia Longo, inedito 2011)

domenica 6 novembre 2011

LE PIETRE



Sento cadere le pietre che abbiamo gettato,
Cristalline negli anni. Nella valle
Volano le azioni confuse dall’attimo
Gridando da cima a cima degli alberi, tacciono
Nell’aria più leggera del presente, planano
Come rondini da cima
A cima dei monti finché
Raggiungono l’altopiano più remoto
Lungo la frontiera con l’aldilà.
Là cadono
Le nostre azioni cristalline
Su nessun fondo,
Tranne noi stessi. 



(Tomas Tranströmer, traduzione di Franco Buffoni, in F. Buffoni, Songs of Spring. Quaderno di traduzioni, Marcos y Marcos 1999)

giovedì 3 novembre 2011

Occorrenza.




Occorrenza di tutto                     di spazio

di tatto.

Perdo umani slanci di interezza
e questo scatena il lato ||                    || della mia fierezza
Balbo emotivo : io : il mio

…a rincorrere gesti già visti/sentiti/…già
/gestigià/
accartocciando vite parallele
stringendo i pugni-digrignando i denti-alzando la voce:
così sgomita la gente, così vorrebbero facessi io
                 <mio io>
«male sbozzolato» ancora non del tutto modellato
frantumato-sballottato-attenuato-sfrondato e…
ancora in cerca


                      (Maria Luigia Longo, inedito 2000)

mercoledì 2 novembre 2011

I suoni e la polvere



Lei, come ogni giovedì, è già entrata in bagno.
La casa è deserta, buia, tranne la finestra del bagno, che ogni giovedì a quest'ora emana una luce calda o così la vedo pensando al dopo.
Da lontano arrivano i suoni delle giostre che vengono ad allietare le serate estive della gente di questo paese e si mischiano alle voci e alle risate dei ragazzi che schiamazzano lì intorno. Mi ricordano un po' le estati di quando ero bambino ed eravamo appena arrivati in Francia con mia mamma e Amina.
Sento le pulsazioni dei bassi.
La porta è accostata e, anche se ho la chiave, lei me la lascia sempre un po' socchiusa. Giro con la chiave nella tasca dei pantaloni per tutto il giorno,quando ho la mano in tasca me lan rigiro continuamente fra le dita. La porto anche nel jeans del lavoro. Sto ben attento a non perderla e sopratutto che non si sporchi di polvere.
Dentro conosco bene la strada e vado subito verso il bagno. La porta è chiusa e lei già sotto la doccia. Sento lo scrosciare dell'acqua sul vetro e sul piano antiscivolo. Resto un po' così, con la maniglia fra le mani, ad ascoltare l'acqua. E la musica di fondo, le pulsazioni dei bassi e la notte così vicina.
E' un gioco che facciamo da un po': lei è sotto la doccia e io arrivo in silenzio, chissà da dove. Mi appoggio al lavandino e mi schiarisco la voce.
- Sei tu? -
Ha una voce allegra, squillante, che mi piace ascoltare mentre parla con i bambini ad esempio.
Mi appoggio al lavandino e resto per un po' a guardare la sua sagoma immersa nel vapore che sale dal box doccia e che ormai ha già appannato il vetro smerigliato, la finestra e lo specchio alle mie spalle.
-Sì, sono io. - rispondo.
Anche così, come una macchia di caffellatte dai contorni sfumati, lei è bellissima. Ha fianchi morbidi e capelli nerissimi e lunghi che non sembra neanche un'italiana.
- Ancora lì? Dài, sbrigati, se no, tra un po', ritornano i bambini con Ines... - quando parla è come se squittisse. Mi mette gioia.
L'idea di farlo nella doccia è venuta a me. Voglio togliermi ogni tanto quel residuo di polvere di cava dalle unghie e l'acqua mi dà l'impressione di riuscirci. Io, nel mio paese, sono uno scultore di alabastro, come molti in Egitto, e qui invece ho trovato lavoro in una cava di gesso. Le prime volte che tornavo a casa dal lavoro, oltre che sui vestiti, ritrovavo quella polvere ovunque: tra i capelli, in bocca, nelle orecchie e sotto le unghie, da cui faccio davvero fatica a farla andar via. All'inizio non stavo molto attento e me la ritrovavo nelle tasche dei jeans e nella zigrinatura delle chiavi, perfino quella di casa sua.
In Egitto mi piaceva tornare a casa dopo il lavoro un po' impolverato, qui no. Mi lavo giù in garage e non dò mai alla polvere la possibilità di salire le scale con me.
- Eddy, dài...vieni?- e spalanca la porta del box doccia. Fuoriesce una nuvola di vapore e intravedo il suo corpo perfetto, bello.
-Resto qui.- dico, con uno strano suono nella voce che può sembrare un lamento.
- Su, non metterti a fare i capricci!- dice, anche questa volta sorridendo.
Voglio restare qui e voglio guardarla.
- Ma che hai?-
-...- la guardo e stasera mi sembra più di quello che posso avere e che posso permettermi.
- Penso a lui. - dico
-Ancora con questa storia?!- ed esce dalla doccia e mi si pianta davanti. - Non sei tu che lo tradisci, sono io la moglie!- è nuda, a un passo da me.
-Sì, un po' lo tradisco anch'io. E' il mio capo. E io... non è una cosa buona.-
La voglia che avevo di lei è passata.
Era iniziato tutto come un gioco, ma ha preso una piega che non mi piace più. A volte ci si trova in impicci del genere senza volerlo. E' come partire con un piede e solo a metà del passo accorgersi che è quello sbagliato.
-Nel mio paese questo è sbagliato. Non si fa.-aggiungo.
Lei chiude la doccia e improvvisamente nella stanza è piombato il silenzio.
Mi stacco dal lavandino e faccio per andarmene.
- Non è strano?- dice, come a volermi fermare con la voce.
- Cosa?- chiedo, già sulla porta.
-Che mio marito ti abbia assunto in cava-
-...-
-Non ti sei chiesto perché ha scelto te e non quegli altri?-
-Che vuol dire? Perché gli sono piaciuto subito, me l'ha detto lui.-
-No, sei piaciuto a me. Io ti ho scelto. Ti ho scelto io.-
-...-
Ha raccolto i capelli in una coda e li strizza sul lavandino.
-Guarda che lo sa, di noi. Stai tranquillo, tra noi funziona
così...lui adesso è con un'altra.-
-...-
-Il giovedì è la nostra serata libera.- dice e mi si avvicina come a volere un bacio. Come se fosse tutto a posto.
Me la prendo. Ma per l'ultima volta.

                   Maria Luigia Longo, esercizio di Cover di un brano di "Scavare una buca" di Cristiano Cavina, ed. Marcos y Marcos 

mercoledì 19 ottobre 2011

un omaggio, un ricordo



                                                                                        per Andrea Zanzotto
Sprofondo forse anch’io
nell’idioma materno
che pure è il mio
quadrilatero.
Ma questo balbettio
riconosce un io
      <il mio>
se costruisce il mondo
e vi appartiene.

Aderisco anch’io
a quell’afasia
di chi è dentro
le cose e le sostanzia.
      Forse.
Ma nel dubbio
includo sempre
un io in ricerca.

E trovo il silenzio
ancora un docile riparo.

         (Maria Luigia Longo, Paesaggi di tempo, Samuele Editore, p. 29)

martedì 18 ottobre 2011

Al mondo



Mondo, sii, e buono;

esisti buonamente,

fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,

ed ecco che io ribaltavo eludevo

e ogni inclusione era fattiva

non meno che ogni esclusione;

su bravo, esisti,

non accartocciarti in te stesso in me stesso



Io pensavo che il mondo così concepito

con questo super-cadere super-morire

il mondo così fatturato

fosse soltanto un io male sbozzolato

fossi io indigesto male fantasticante

male fantasticato mal pagato

e non tu, bello, non tu «santo» e «santificato»

un po’ più in là, da lato, da lato



Fa’ di (ex-de-ob etc.)-sistere

e oltre tutte le preposizioni note e ignote,

abbi qualche chance,

fa’ buonamente un po’;

il congegno abbia gioco.

Su, bello, su.


Su, münchhausen.



(A. Zanzotto)

sabato 15 ottobre 2011

Buon compleanno, poeta!





Esistere psichicamente

Da questa artificiosa terra-carne

esili acuminati sensi

e sussulti e silenzi,

da questa bava di vicende

- soli che urtarono fili di ciglia

ariste appena sfrangiate pei colli -

da questo lungo attimo

inghiottito da nevi, inghiottito dal vento,

da tutto questo che non fu

primavera non luglio non autunno

ma solo egro spiraglio

ma solo psiche,

da tutto questo che non è nulla

ed è tutto ciò ch'io sono:

tale la verità geme a se stessa,

si vuole pomo che gonfia ed infradicia.

Chiarore acido che tessi

i bruciori d'inferno

degli atomi e il conato

torbido d'alghe e vermi,

chiarore-uovo

che nel morente muco fai parole

e amori.



(Da "Vocativo", Andrea Zanzotto)

domenica 9 ottobre 2011

ORA SECONDA. DIALOGO COL PAESAGGIO.




rughe perenni
i calanchi
raccolgono l’intervallo di tempo
fra il dire e il fare
e tu
in quello spazio immoto ancora muovi.
Lo scempio di altri paesaggi
qui
non fa eco,
non stride, non urla
tutto tace
e s’accartoccia a cielo aperto.
L’unica cosa che rimane
è lo sterco del pensiero che s’immalinconisce.

                           (Maria Luigia Longo, Paesaggi di tempo, Samuele Editore, p. 20)

mercoledì 28 settembre 2011

"Disse: credo nella poesia..."



"Disse: credo nella poesia, nell'amore, nella morte,
perciò credo nell'immortalità.
Scrivo un verso,
scrivo il mondo.
Dalla punta del mio dito mignolo scorre un fiume.
Il cielo è sette volte azzurro.
Questa purezza
è di nuovo la prima  verità, il mio ultimo desiderio"

(Ghianni Ritsos)

venerdì 16 settembre 2011

E nottetempo...




E nottetempo la gente si arrappa,

s'ingrifa, al serra serra si disgroppa.

Ah... eh... ah... bada ansimare... di tappa

in tappa svelta s'accoppia, s'aggroppa.

 

Ponte sui sensi, avendoli, s'acchiappa

Con mutua trappola, greve s'intoppa

fino allo scoppio... gioca stringichiappa

a strappa strappa e a cervello di stoppa

 

por toppa... E intanto la notte scappa

da razionalità antidotata

e imperata... Io dolente, in gola un groppo,

 

il mio universo d'assenze e la mappa

dei miei giorni ridesti mi sciroppo,

di pensamento in abuso incappata.

 

La stessa rigirata

d'angoscia in margine all'esiguo e al troppo:

il succo della notte invero allappa.



[Patrizia Valduga, Da Medicamenta e altri medicamenta ]



domenica 11 settembre 2011

La vita in versi



Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.

Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettando occhiate
d’accordi. E gli astanti s’affacciano
al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.
è possibile più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.

[Giovanni Giudici, da La Vita in versi]






LA TUA TERRA


 

La tua terra
sa d'attesa e conta i passi
come fossero le ore del giorno.

E passa anche la lettura
dei nostri versi imperfetti
che tentan di ricalcare
le orme degli altri
mentre il passo cede
e si sofferma
un po' a guardare altrove
e un po' a issare
i calici celesti
di questo quasi vino
dell'ispirazione.

(Maria Luigia Longo, inedito 2011)

venerdì 2 settembre 2011

T'accompagnano altrove


T'accompagnano altrove
i miei occhi
e le tue fughe
a rincorrere

La vana corsa
ragazzo
ad aspettare i giorni
e le ore
di un tempo
che nulla ha da invidiare
a quello degli dèi
vanagloriosi e indolenti
che tu ben conosci

Il cammino s'è fatto più stretto
ma ogni giorno avanza

martedì 9 agosto 2011

12 dicembre


Caro Igor,

questo foglio, vuoto, proviene da un quaderno importante e prezioso; pieno, proviene non so da dove. Da me, forse.

Riprendo a scriverti. Credevo non lo avrei mai più fatto. Ma scrivere mi fa bene, lo sai. Mi dà un senso fortissimo di appartenenza a me stessa.

Questo che vivo è forse uno dei periodi nei quali mi sono sentita più sola. E non soltanto lontana dal mondo, ma proprio da me. Non avrei mai creduto di dover vivere senza di me per un periodo così lungo. Mi sento sballottata, dentro e fuori e continuamente. Sento un atroce senso di estraneità quando mi muovo in mezzo agli altri, ma anche quando resto con me.

Avverto estraneità ogni qualvolta penso di vivere qualcosa di me e di mio. E l’abbandono, fuggo forse.

Mi vedo vivere, ma non mi sento vivere. Mi sento persa e non so più se sono persa in me o fuori da me.

Neppure nel sonno trovo riparo.

Poi quell’aereo l’ho preso davvero e adesso mi trovo a sud, nel sud del mio mondo. L’ho preso in silenzio e senza grossi clamori.

È passato qualche mese, ma non è cambiato molto. Non è cambiato niente.

E forse ritorno.

Anche se, in fondo, cosa cambia?

In fondo? Nulla.

Brano tratto dal romanzo inedito

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne
di Maria Luigia Longo


lunedì 8 agosto 2011

l’ora senza rintocchi


Sono certa di essere giunta alla fine. Una fine senza fine. Perpetua. Non ho più occhi per vedere e guardare al di là di essa. Non scorgo più, guardandomi, alcuno stimolo ad essere.

Hai preparato la bara? - Igor, con la sua ironia improduttiva.

Stamattina l’ultimo spettacolo. Suo e mio.

Hai preparato la bara? - di nuovo.

Non riuscivo a muovere le labbra né ad articolare alcun suono.

Perché non parli? Siamo alla frutta -disse.

Odio le tue metafore e il tuo umorismo - io, con voce roca.

Perché non parli?!-lui, sempre più nervoso.

Ma non c’ero già più, né per me, né per lui.

Avevo mille discorsi in testa ma non riuscivo a parlare.

Lui mi scrollava e mi spingeva al muro e io sono rimasta inerme. Non avevo più niente da dirgli, né frasi nella testa o pensieri brulicanti.

Ero sola ed incosciente.

Non sei ciò di cui ho bisogno- Le mie ultime parole. A lui. Al mondo.

Ti metti sotto vuoto e guardi la vita scivolarti dalle mani! Sei morta! Morta-

Ma non mi toccava già più.

Sì, forse ero morta.

Brano tratto dal romanzo inedito

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne
di Maria Luigia Longo


sabato 6 agosto 2011

8 giugno


Ho lasciato l’università nel caos più totale. In me.

Avrei dovuto dare l’esame. Ma ero in un certo stato di mente e mentre rispondevo in maniera esatta alle domande del professore, sono piombata in me. Improvvisamente. Non sono più riuscita a distinguere la mia voce da tutto il resto. Prima non sono riuscita a distingue le parole tra loro, poi la mia voce è stata assalita da altri suoni: il vociare confuso della gente alle mie spalle, il traffico delle macchine in strade lontane, il cinguettio di uccelli in volo non so dove, clacson suonati lungamente con rabbia, il rumore delle pagine dei libri sfogliati dalle mani di qualcuno nell’aula, il respiro pesante e affannoso del docente. Poi si sono aggiunte le immagini: un corpo di uomo seduto goffamente su una sedia e immerso in una parete bianca; mani gonfie che sfogliano un libro; occhi stanchi e fissi sulle mie parole senza alcuna indulgenza. I suoi occhiali. La cravatta scura immersa nella camicia. La gola scura, rosso marcio. Il suo odore di carne mattata. La sua gola debordante, sulle spalle e sul petto. La gola ovunque. La testa pelata e i suoi occhi cinici e noncuranti, la bocca sdentata. Gli occhi pieni di lacrime. Le mie. Le mie, di chi? Io in tutta questa gola, dov’ero?

Non ho più potuto distinguere tutto il resto da me.

Poi una voce - Signorina, ritorni al prossimo appello... e molto più preparata!

Quel tutto estraneo mi ha rigettata fuori. Fuori anche da me.

Smarrita inspiro profondamente, cerco di liberare la mente, poi chiudo gli occhi.

L’ululato sguaiato di un cane mi scuote e mi riporta in me. Sento il fruscio del vento tra l’erba secca. Il vento la scuote tutta e fa oscillare gli steli. Mi esplode dentro l’immagine dei fiori mossi violati. Vacillo e sento di essere sul punto di soccombere sotto alcuni pensieri. Si apre un baratro...fatto di pensieri, immagini e suoni.

Una tempesta di rumori. Il mio cuore: che frastuono! Il dolore cresce e non è un dolore solo dell’anima, no, è il mio corpo che soffre. Brucia tutto. Mi fa male il cuore. Mi brucia la pelle. Avverto spasmi lancinanti ovunque. Mi fa male lo stomaco, in un conato di vomito. Ho la testa pullulante di rumore.

Lo assaporo tutto, questo dolore. Sa di amaro. L’amaro della coscienza che se n’è andata. L’amaro di percepire tanta estensione in sé e non riuscire a trovare un appiglio. E precipitare lontani persino da sé. L’amaro di avvertire tanta estensione anche nell’altro e di non riuscire a sovrapporsi ad essa. Quell’amaro dovuto alla perdita dell’Igor-coscienza.

L’amaro di disperazione e smarrimento. Lo smarrimento della dispersione e frattura di sé.

Brano tratto dal romanzo inedito

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne
di Maria Luigia Longo

venerdì 5 agosto 2011

7 giugno


Sono sul balcone, di spalle alla ringhiera.

Il cielo è coperto da grandi nuvole basse: la striscia di cielo limpido è quasi nulla. L’azzurrino del cielo che in alcuni punti si fa più scuro quasi grigio, nel quale sono immerse le nuvole dai contorni evanescenti illuminati dal sole, calamita la mia attenzione.

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne, ma alcuni raggi illuminano bassi, indorando l’estremità inferiore delle nubi. Nei vetri appare anche, sbiadita, la mia immagine e il mio sorriso mesto.

Sono immersa nel tramonto arancione. Lo vedo riflesso nel vetro.

Di colpo un pensiero: il tramonto è dietro di me!

E mi stupisco.

Mi giro: tutto il confuso di colori è ben distinto e molto più vivo di come lo vedevo prima. Vedo anche altri colori: il più bello è un viola perlato che invade sulla destra la sagoma ombrosa dei monti. E dall’altra parte le nuvole spumose sono invece di un grigio perla immobile e mi disarmano. Il centro invece è tinto di un rosa sfumato ad un accenno di grigio. E, sotto, l’erba è più vicina ed è mossa dal vento. Ne sento il fruscio. Mi stupisce ancora tanta poesia di colori tenui.

Prima, nel vetro, non la scorgevo. Ma io? Che colore ho? E se ci sono, dove? Dove sono in tutto questo splendore?

Frattanto il tramonto si è tinto di buio e anche le mie sensazioni trascolorano pian piano e si dissolvono. Restano solo i ricordi, legati ai tramonti. Quanti ne ho vissuti! Quanti hanno, mio malgrado, vissuto me! L’ultimo qualche mese fa, con Igor o, meglio, senza di lui: accanto a lui senza di sé.

Era sabato pomeriggio. Io e Igor non eravamo più una coppia: c’ero io, i miei frammenti, i miei atti mancati, le mie fisime e c’era lui, i suoi frammenti, i suoi atti mancati, le sue fisime e c’erano i nostri dolori. E c’era sempre molto altro ancora oltre a noi due. Quel sabato andai molto presto nel suo regno fatto di ansia e di atmosfere inquiete. E a volte di dolcezza. E qualche volta di rabbia (adesso so che quando facevamo l’amore, lo facevamo per rabbia: aspettavamo che si accumulasse e che esplodesse furiosa in un orgasmo nichilista).

Faceva molto caldo. Io ero molto lontana da me e facevo di tutto per rimanerlo. La mattinata e tutto il suo torpore mi erano scivolati addosso sordamente. Igor era solo in casa e stava sul balcone a crogiolarsi al sole immerso nella lettura di un poeta: il solito Whitman. Alzò appena gli occhi dal libro quando arrivai e non rispose al mio saluto. Questo mi ferì e mi fece capire che avremmo forse litigato. Mi sedetti di fronte a lui. Aveva un bel corpo. Avrei voluto che si fosse alzato e mi avesse lasciata cadere nelle sue braccia. Lievemente.

Io non avevo la forza di toccarlo.

Alzò per un attimo gli occhi dal libro e mi lanciò uno sguardo duro e a me parve carico di rancore. Mi ferì. Rancore per cosa?

Leggeva ripetendo a voce bassa i versi whitmaniani. Aveva il labbro superiore leggermente carnoso e dalla linea irregolare. Mi ignorava. Io sentivo il bisogno di piangere, volevo solo amarlo lì e subito e invece...

Devo sbrigarmi se voglio arrivare in tempo.- disse di colpo correndo in casa.

Dove vuoi andare?, non capivo quello che faceva.

Ma lui non mi ascoltava nemmeno.

Dove stai andando?- gridai, afferrandolo per un braccio.

Lui si bloccò, come stupito; sembrava sul punto di dirmi qualcosa ma non riusciva a trovare le parole, non riusciva ad articolarle. Poi, dopo quell’esitazione, mi guardò smarrito e mi urlò che non dovevo toccarlo.

Non mi devi toccare! Te ne devi andare! Vattene via!

Rimasi scioccata e non riuscii a ritirare la mia mano che giaceva abbandonata e smorta. Restammo così per qualche istante. Avrei voluto non reagire e invece urlai anch’io, anch’io smarrita, anch’io violenta.

Tu sei pazzo!

Ancora una volta parole sbagliate e pesanti. Ancora una volta lo vidi perso in quelle mie parole, dietro ad esse e vidi me rincorrere entrambi: le parole avanti, veloci, Igor dietro, sgomento e poi io, sbagliata più delle mie parole.

Lo gridai ancora e più forte. Non mi controllavo più. Né lui controllava se stesso: mi allontanò da sé con uno strattone, andò verso la porta, afferrò la maniglia, esitò, si voltò a guardarmi e correndomi incontro mi abbracciò forte, tanto da farmi male. Mi baciò forte, anch’io lo baciai e poi mi disse lievemente Te ne devi andare! E più me lo ripeteva e più mi baciava e più io lo accarezzavo. Mi aggrappai a lui con tutte le forze.

Tutto fu violento e disperato, anche il distacco: fu come perdere un arto: sentii la carne lacerarsi e rimanere vuota di sé.

Non voglio perdere il tramonto, è quasi ora. -risoluto.

Vengo con te, dissi.

Non si oppose, ma sapevo che il silenzio di Igor non era mai stato assenso. Andai con lui, verso il mare, ma fu come perderlo una seconda volta: mi stava accanto ma era lontanissimo. Come può creare il gelo dentro di sé e intorno in modo tanto definitivo da trasmetterlo anche a me e, allo stesso tempo, renderlo inaccessibile? Come ci riusciva? Gli stavo accanto ma non gli stavo dentro e non potevo più afferrarlo, né toccarlo e neppure riuscire a vederlo.

Tornai a casa senza di lui.

Il giorno dopo mi concesse un’ultima carezza che a me suonò come uno schiaffo: alcuni versi di Whitman:

Addio, mia fantasia- ( avevo qualcosa da dire,

ma non è ancora il momento- il meglio che chiunque

debba dire

è quando è tempo e luogo- e quanto al significato

mi tengo il mio fino alla fine).

Igor.


Vorrei vederlo, ora. Per sentirlo parlare, per percorrere ancora una volta la linea delle sue labbra, il suono della sua lingua...

Ma forse non è ancora né tempo né luogo.

Camminare a quest’ora per strada, sotto il tramonto che piano piano si stempera, è inebriante e mi regala un certo senso di leggerezza. E vorrei dirlo a Igor.

Ho ancora le chiavi di casa sua e apro. Le finestre sono spalancate e le stanze sono invase da decine di mosche che volano freneticamente in circolo dappertutto. Lui se ne sta perso dietro ad un videogiochi di suoni e di colori. Forse è lì da diverse ore. La stanza è completamente buia.

È questo il tempo e il luogo? È adesso?- chiesi a mezza voce, avvicinandomi a lui. E’ passato molto tempo e forse non ricorda nulla. Aggrotta le sopracciglia e tace. Poi si volta con sguardo interrogativo.

Prendo dal comodino il libro di Whitman, sicura di trovarlo lì, al suo posto. Rileggo i versi. Lui va a sedersi sul letto.

Mi chiede di leggerli ancora, chiudendo gli occhi.

Lo faccio questa volta con molta più enfasi, incoraggiata dall’atmosfera patetica che si è creata. E dopo si crea un lungo silenzio.

No, non è ancora questo il tempo – dice scuotendo leggermente la testa - Non è ancora questo il luogo. Perché non ho proprio niente da dire. Cosa potrei dirti con questa nausea?

Seduta accanto a lui - Anch'io sento la stessa sensazione e spesso il buio della mente è così diffuso che vorrei davvero chiudere con me stessa, per non essere costretta a doverlo anche soltanto avvertire, dico

Non devi volerlo, è già successo: abbiamo già chiuso con noi stessi. E già da molto tempo.

Esausta affondo la testa nel cuscino e lì rimango.

D’un colpo, poi, avvicina la fronte al mio viso e prende con essa ad accarezzarmi la guancia, leggero, tenero… scivola così lungo il mio collo, la gola, il petto, il ventre e lì si trattiene.

Poi bruscamente torna al suo gioco. Smarrito in sé.

Non era né il tempo né il luogo e non c’era proprio nient’altro da dire.

Ciao.

Se n’era andato.

Brano tratto dal romanzo inedito

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne
di Maria Luigia Longo