lunedì 1 agosto 2011

Nel mezzo della notte



È molto tardi e la piazza si è da poco svuotata.

Adesso il silenzio brulica da ogni parte. Prima c’era gente ovunque, nell’estenuante tentativo di stringere relazioni per concludere al meglio la serata. Li ho guardati. Tutta la sera. In silenzio in mezzo alle loro grottesche rappresentazioni dal vivo di scene di film neanche troppo intelligenti. Finalmente sola. Sola, cioè, rispetto agli altri, ma piena di me: in compagnia di tutti i miei frammenti. Mi sto sentendo. Ci sono. E mi sto dipanando, ho voglia di uscire. Qui, a compattarmi. Il ricordo è così vivo e presente da sentirlo quasi vivere di vita propria.

Lo sento: si sta srotolando e mi dilato anch’io. Cosa vedo?

Un cortile non molto ampio, elevato dalla strada, una ringhiera verde che si affaccia su di essa, panchine di legno, un’aiuola, una fontana, il porticato di un teatro e una serie di alberelli da poco piantati. E forse un gruppo di bambini che gioca. Era il cortile su cui dava l’entrata del teatro. C’era un’altra cosa nel cortile: l’umidità. Allora non ne avevo coscienza, ma adesso sarei pronta a giurare che ci fosse umidità ovunque. Sono ora più sicura della presenza dell’aria umida che di quella dei bambini che forse giocavano. Erano mesi che non ci incontravamo più, Igor e io.

Troppe spiegazioni da dare e da ricevere, mi disse per giustificare il suo abbandono.

Forse era soltanto questa la spiegazione, forse c’era dell’altro. Non so. Era una serata strana per me. Piangevo, lo ricordo bene. Forse sto piangendo anche adesso e dentro qualcosa sanguinava. Un no! categorico e immotivato, giunto da lui in un momento di estrema debolezza e confusione (mie), mi aveva ferita. Quel no! era arrivato dopo una lunga serie di altri no!, e forse avrei dovuto quantomeno prevederlo, ma non volevo credere che potesse arrivare così definitivo e proprio da lui. Non potevo più sopportare. E sono esplosa: ho rifatto di corsa le scale e davanti a lui (che ormai – triste destino per gli altri da me – era il mio specchio) ho emesso tutto il mio smarrimento, tuonando un perché?! denso.

Ho addosso, nelle ossa, la fatica di chi piange da giorni e la spossatezza di chi ha appena fatto l’amore. Ripetutamente e con totale abbandono.

Al mio perché lui sorrideva. Perché sorrideva?

Esigevo, a questo punto, una risposta.

Arrivò: due parole per dire che le parole erano di troppo e per capire che non occorrevano. E poi il silenzio, pieno. Ecco: quello sguardo mi invadeva di nuovo. Stavolta, però, più dolce e pieno di meraviglia. E vasto e immenso e caldo. Adesso ero io che sorridevo di meraviglia. Sentivo che Igor stava cercando di prendere quella coperta per darmi calore.

E io? Piangevo ancora? Non più.

Il suo sguardo era così aperto e vasto da farmi sentire non solo di averlo dentro, ma paradossalmente di essergli dentro anch’io. Completamente. Forse non so spiegarlo, ma mi vedevo proprio saltellare e rotolare dentro quello sguardo, che paradossalmente era anche il mio. All’inizio tale sensazione di vastità mi disorientava e mi sentivo persa in lui. Imprigionata, così da non riuscire addirittura a ritornare in me. Non so perché accadesse, ma era meraviglioso. E mi sentivo esistere. Come poche altre volte. Come ora. E non immaginavo ancora che di lì a poco avrei sentito il mare.

Restammo seduti a parlare su uno scalino del teatro. Parlammo molto.

Di noi, anche.

Poi si allontanò per un attimo (non ricordo a fare cosa, forse a telefonare…non so). Rimasi da sola nel cortile per un po’ ed ebbi modo di ritornare in me. Potei non solo guardarmi attorno, ma soprattutto dentro. Nel cortile non c’era nessuno e in strada sembrava non passasse alcun veicolo e io stavolta ero davvero da sola: non sentivo alcun vuoto urlare e, anzi, ero avvolta e pregna di una delicata sensazione di tepore, Ecco, era una dolce sensazione di sollievo. Stavo bene ed ero ignara del fatto che di lì a poco sarei stata anche meglio. Fu quando tornammo a casa. Nella sua Dyane verde. Poche parole circondate e sostenute da silenzi densi e molto loquaci. Come sempre con lui.

Sto male, lo sai?- disse.

Lo so - risposi.

Guidava veloce, come se stesse rincorrendo qualcuno.

Allora perché te ne vai? Perché ti allontani?, chiese.

Non è vero! Sono qua!-. Non aggiunsi nient’altro, tanto mi pareva certa la mia posizione.

Adesso sei qua, ma fra un attimo sarai già lontana anni luce. Da me, da tutti. È sempre stato così, fin dall’inizio. Non ho mai visto una persona tanto piena di sé come te. Mai.- Fu lapidario. Altro pugno allo stomaco. Adesso guidava praticamente a centro strada.

Non è vero, non sono così- riuscii a rispondere solo questo. Ferita. Il mio specchio mi raffigurava come non avevo mai pensato di essere.

E’ così: te ne vai addirittura mentre mi vieni incontro- concluse.

Ripercorsi velocemente alcuni eventi passati e mi rividi presente ma inerte, paralizzata da alcune rivelazioni e quindi per gli altri non presente. Fuggivo da me e certamente dagli altri ogni volta che scoprivo di precipitare. E questo succedeva soprattutto con lui che era la persona che avevo interiorizzato di più. Rimasi inerme anche davanti a questa nuova scoperta. E stavo già incominciando a vagare chissà dove (naturalmente senza coscienza) e chissà dove sarei arrivata se lui non mi avesse riportata in me. D’improvviso, infatti, la sua mano destra si staccò dal volante e il braccio si distese fino a me, rimanendo sospeso in aria, a un palmo da me. Ci volle un po’ di tempo perché io riuscissi a percepire il suo gesto: ero già molto lontana.

Mi disse anche qualcosa che ora non capii: non c’ero già più, ero assente a me stessa e non sapevo dove recuperarmi e non avrei di certo potuto darmi a lui senza prima essere tutta me. Non potevo muovermi.

Che dolore fu per me vedere quella mano tesa, pronta per essere stretta e non poterla afferrare! Eppure ne avevo bisogno anch’io. Vidi sul suo volto lo sconcerto, che divenne amarezza. Stava ritirando a sé la mano, quando qualcosa in me si mosse: uno slancio: gli presi la mano con forza e quella mano, pronta per essere afferrata, fu in realtà un appiglio per me. Fui invasa da una insolita dolcezza che mi fece vacillare. Mi sentii fremere. Appagata. Mi sentii, fortemente, in me! Il mio appiglio, delicato come delicato è adesso il silenzio di questa piazza. Pieno: lo sento anche adesso.

Mi emozionò tantissimo l’esplosione di gioia incontenibile del suo viso quando gli strinsi la mano. Fu una deflagrazione che coinvolse anche me. Passarono per i suoi occhi prima lo sconcerto, poi l’amarezza e poi la gioia. Li vissi tutti. E li rivivo anche adesso, nella carne, qui…Tornai a casa esausta ma felice di quello che avevo vissuto. Ero, però, ancora inconsapevole. Allora era ancora troppo presto e non avrei potuto immaginare le proporzioni del mio distacco.

Ora lo vedo: lo sdoppiamento di me da me stessa.

La volta seguente infatti fu ancora più profondo e chiaro il disvelamento di me.

Era una notte piena di gente. Troppe persone più o meno importanti (per la verità, la maggior parte di esse non mi apparteneva neppure); troppe persone, quindi, più o meno sincere (probabilmente lo erano, ma poiché non mi appartenevano, di loro non mi riguardava né la verità, né la non-verità). E in me troppi frammenti in collisione fra loro: ero, cioè, in un particolare stato di mente: quasi sconvolta. Il perché non lo ricordo. Ricordo solo che io ero calamitata soltanto da Igor.

L’avevo ritrovato. O così credevo. Non l’avevo dimenticato, non era scivolato nel passato; l’avevo soltanto protetto in me, ovattato, per non permettere né a lui (che se n’era andato) né al bisogno di averlo dentro di logorarlo in me. L’avevo protetto perfino da me. E adesso era lì davanti a me: il tempo del mio rapporto con Igor era tutto davanti ai miei occhi, srotolato nelle mie mani, e potevo manipolarlo io stessa e giocarci. Tuttavia quella notte la mia gioia era così densa da rasentare addirittura la disperazione di non poterla più contenere, perché troppo grande e il timore che si disperdesse in qualche luogo lontano da me o, peggio, in fondo a me acuiva enormemente il dolore che si manifestava, ricordo, con sensazioni dilatate e pulsanti: ero, insomma, in preda ai miei istanti. Completamente.

La coscienza era così immensa da sentirsi persa in sé e circoscritta in me, troppo piccola e impotente. Ero disorientata, ma felice forse. Per un attimo il ricordo mi ha resa felice, credo, in una maniera che a ripensarci adesso mi fa tenerezza: quasi infantile: euforica e incontenibile. Appesantita certo dalla paura di perderne coscienza.

Ero, dunque, al centro di un piazza piena di gente che assisteva ad un concerto di buona musica locale. La musica mi cullava dolcemente nelle mie sensazioni. E mi inebriava, isolandomi dalle mille voci del mondo che mi sfioravano appena, scivolando via da me senza ferirmi. Senza sporcarmi.

Dopo il concerto tutti se ne vanno, la musica si disperde chissà dove e la piazza si svuota in un attimo. Mi guardo attorno e noto che Igor non c’è. Sono rimasta sola. Questo mi irritò alquanto, lo ricordo bene.

Ero quasi stremata dai miei istanti e, per questo, piansi. Non posso fare a meno di piangere, quando sto così. Dicono che il pianto sia una forma di reazione ad un problema. Può darsi sia vero. L’emozione si trasforma sempre il lacrime quando è troppo densa se vuol essere liberatoria. E lo fu.

Volevo parlare con Igor, anzi, volevo che lui parlasse con me. Avevo bisogno di ascoltarlo. Prima però dovevo compattarmi.

Così feci un lungo giro nei dintorni della piazza. Percorsi velocemente la strada dello squallido passeggio che, a mano a mano che ci si allontanava dalla piazza, diventava meno popolosa. Correvo quasi, per non rischiare di incontrare qualcuno che mi conosceva o che pretendeva di farlo proprio quella sera. Volevo ritrovare atteggiamenti normali e ogni tanto mi fermavo davanti alle vetrine, ma i miei sguardi erano sempre molto veloci e superficiali e in realtà non vedevo niente. Scesi per delle scalette e in un vicolo non molto illuminato che portava al parco, smisi di piangere le mie lacrime in silenzio. Stetti così per un po’, poi tornai nella piazza ora completamente vuota. Cercai Igor. Ora volevo solo tornare a casa. Non avevo più voglia di stare con lui, né di parlare. Seppi che anche lui mi aveva cercata. Lo trovai nel solito pub. Ubriaco a far mostra di sé.

Mi avevi mai visto così?- mi chiese, quasi come voce di coscienza fuori campo.

Rimasi muta a considerare velocemente la situazione e a cercare di decifrarla.

Guardami. Io sono così- disse ancora. Mi scagliò di nuovo nello sconcerto, mentre avevo la netta sensazione che si stesse allontanando di nuovo da se stesso. E da me. Si allontanava dai miei occhi, sempre troppo scrutatori, e dalla mia mente, sempre piena di domande. Era forse per questo che per mesi se n’era andato via da me? Per la mia curiosità di malata psicoanalista? O forse per non permettermi di vedere la sua tristezza. Aveva dunque vergogna dei miei occhi? Come se il suo dolore non fosse anche il mio! Mi vedeva, dunque, tanto diversa da sé? E incapace di guardarlo con occhi benevoli? Oppure voleva difendermi da tutto questo. O era lui che non voleva vedere e guardarsi.

Non volevo che se ne andasse via di nuovo. Questa volta non l’avrei permesso né a lui né a me stessa. Se l’avessi lasciato allontanarsi e perdersi, non me lo sarei mai perdonato.

Bevvi anch’io qualcosa di fortemente alcolico e poi Andiamo a casa? dissi, accarezzandogli la nuca. Funzionò. Dopo era strano, come in uno stato di sospensione e di attesa.

Continuava a chiedermi cosa riuscivo a vedere. Di lui, certo. In macchina, coi finestrini aperti. Il vento mi scompigliava i capelli, dandomi brividi fulminei lungo tutto il corpo. Ero già in frantumi. E non potevo rispondergli. Non ci riuscivo. Occorreva troppa volontà e coscienza per compattarmi e riunire i frammenti dispersi chissà dove e la mia mente era una tabula rasa frammentata da pensieri pesanti in collisione. Flash. Allucinazioni.

E incominciavo a vagare, tremante. Non volevo più pensare e non volevo più sforzarmi di farlo né guardare qualcosa di cui non riuscivo neanche a vedere i contorni. Non volevo avere più coscienza della mia perenne non coscienza. Riuscivo solo a ripensare al concerto, alla piazza deserta, all’umidità del cortile davanti al teatro, quella sera. Tutto in uno zapping affannoso ed estenuante: la strada, le luci, il cielo coperto di nuvole…i frammenti.

Igor insisteva. La notte stava dileguandosi. E forse anch’io, se non ci fosse stato lui. Capì che avevo bisogno di un input per abbandonarmi a leggerlo, per ritrovarmi e sovrappormi a lui e me lo diede: mi prese la mano: ritornai in me.

Ecco: era lui: la persona che era capace di darmi sollievo.

Ma adesso toccava a me dirgli che ce l’aveva questa benedetta coscienza e che doveva soltanto lottare per recuperarla in sé e che forse i frammenti potevano essere compattati. E che non doveva necessariamente ogni volta obliarsi e disperdersi. Mi sono sentita…fisicamente! Ero ritornata, tutta. Compatta. Unita in un unico ente: l’io, per intero. C’ero e c’era anche lui. C’eravamo incontrati per caso, avevamo avuto percorsi diversi, spesso opposti, esperienze diverse, noi stessi eravamo diversi, ma adesso eravamo lì. Uniti. Ecco: la coperta.

Che meraviglia.

Non ricordo di essere mai stata tanto in me come in quel momento. Potevo dire sono!, senza dover aggiungere per forza attributi per definirmi; e senza dover usare parole per mostrarmi all’altro o flash per avvicinarmi a me stessa. E non dovevo più neanche pensare prima e per forza a quello che non ero per capire quello che ero. Non più. Capisco solo ora che in quell’istante Igor è diventato una parte di me e solo ora capisco in che misura. Il mio specchio. Forse la voce della coscienza. Forse la coscienza stessa.

Come mi vedi? chiese.

Cosa vedi? insistette.

Mi gettò nel panico: ero tutta me, ma dovevo esternare i miei pensieri.

Ti vedo aperto. Più del solito- risposi.

Sì, lo sono... parlami. Come mi vedi?,lui

Voglio incontrare la vera parte di te. Non ti nascondere!- dissi con un po’ di fatica e, credo, di rossore sulle guance.

Non puoi pretendere di incontrarmi in mezzo alla gente. Non puoi pretendere di incontrarmi quando nemmeno io lo faccio più. E poi devi smetterla di pretendere di andare così in fondo. Proprio tu, sempre così lontana e schiva. Costringi gli altri a sputtanarsi e tu ti ostini a rimanere sempre trincerata nei tuoi silenzi-disse.

Non è vero- risposi timidamente.

Dove sei quando ti allontani? Dove te ne vai?- Non seppi rispondere più nulla, ferita e spiazzata dal senso pesantissimo di qualcosa che non conoscevo e che forse non avrei mai neppure colto.

Mi strinse più forte la mano e mi chiese di aiutarlo a ritrovarsi. Ricambiai la stretta ma non seppi fare null’altro. Avevo sbagliato parole: l’ennesimo mio atto mancato! Avrei voluto usarne altre e in un altro modo, ma ne ero stata incapace. Avevo perso l’essenza stessa del mio sentire. Si era sciupato nell’arrivare alla lingua. Mi rendo conto, adesso, che in quegl’attimi Igor regalò il disvelamento di me a me stessa; prima non lo sospettavo neanche. Io gli ho negato invece la mia impressione di quell’attimo, perché distratta dai miei frammenti.

Gli ho dato il senso di un’impotenza definitiva, annegando il suo bisogno d’aiuto nella rassegnata provvisorietà di cui anch’io sono vittima.

E forse l’ho tradito.

Chissà cosa sarebbe cambiato se gli avessi parlato con consapevolezza e focalizzando l’attenzione solo su di lui. Ma la mia mente è labile e non riesce a fermarsi per molto tempo su di un solo punto. Fa zapping tra passato e presente per non vedere la sua inconsistenza e non accorgersi che sta precipitando nel non senso.

Questa è la verità. Ero solo stata messa di fronte alla mia non coscienza.

Brano tratto dal romanzo inedito

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne
di Maria Luigia Longo


Nessun commento: