venerdì 5 agosto 2011

7 giugno


Sono sul balcone, di spalle alla ringhiera.

Il cielo è coperto da grandi nuvole basse: la striscia di cielo limpido è quasi nulla. L’azzurrino del cielo che in alcuni punti si fa più scuro quasi grigio, nel quale sono immerse le nuvole dai contorni evanescenti illuminati dal sole, calamita la mia attenzione.

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne, ma alcuni raggi illuminano bassi, indorando l’estremità inferiore delle nubi. Nei vetri appare anche, sbiadita, la mia immagine e il mio sorriso mesto.

Sono immersa nel tramonto arancione. Lo vedo riflesso nel vetro.

Di colpo un pensiero: il tramonto è dietro di me!

E mi stupisco.

Mi giro: tutto il confuso di colori è ben distinto e molto più vivo di come lo vedevo prima. Vedo anche altri colori: il più bello è un viola perlato che invade sulla destra la sagoma ombrosa dei monti. E dall’altra parte le nuvole spumose sono invece di un grigio perla immobile e mi disarmano. Il centro invece è tinto di un rosa sfumato ad un accenno di grigio. E, sotto, l’erba è più vicina ed è mossa dal vento. Ne sento il fruscio. Mi stupisce ancora tanta poesia di colori tenui.

Prima, nel vetro, non la scorgevo. Ma io? Che colore ho? E se ci sono, dove? Dove sono in tutto questo splendore?

Frattanto il tramonto si è tinto di buio e anche le mie sensazioni trascolorano pian piano e si dissolvono. Restano solo i ricordi, legati ai tramonti. Quanti ne ho vissuti! Quanti hanno, mio malgrado, vissuto me! L’ultimo qualche mese fa, con Igor o, meglio, senza di lui: accanto a lui senza di sé.

Era sabato pomeriggio. Io e Igor non eravamo più una coppia: c’ero io, i miei frammenti, i miei atti mancati, le mie fisime e c’era lui, i suoi frammenti, i suoi atti mancati, le sue fisime e c’erano i nostri dolori. E c’era sempre molto altro ancora oltre a noi due. Quel sabato andai molto presto nel suo regno fatto di ansia e di atmosfere inquiete. E a volte di dolcezza. E qualche volta di rabbia (adesso so che quando facevamo l’amore, lo facevamo per rabbia: aspettavamo che si accumulasse e che esplodesse furiosa in un orgasmo nichilista).

Faceva molto caldo. Io ero molto lontana da me e facevo di tutto per rimanerlo. La mattinata e tutto il suo torpore mi erano scivolati addosso sordamente. Igor era solo in casa e stava sul balcone a crogiolarsi al sole immerso nella lettura di un poeta: il solito Whitman. Alzò appena gli occhi dal libro quando arrivai e non rispose al mio saluto. Questo mi ferì e mi fece capire che avremmo forse litigato. Mi sedetti di fronte a lui. Aveva un bel corpo. Avrei voluto che si fosse alzato e mi avesse lasciata cadere nelle sue braccia. Lievemente.

Io non avevo la forza di toccarlo.

Alzò per un attimo gli occhi dal libro e mi lanciò uno sguardo duro e a me parve carico di rancore. Mi ferì. Rancore per cosa?

Leggeva ripetendo a voce bassa i versi whitmaniani. Aveva il labbro superiore leggermente carnoso e dalla linea irregolare. Mi ignorava. Io sentivo il bisogno di piangere, volevo solo amarlo lì e subito e invece...

Devo sbrigarmi se voglio arrivare in tempo.- disse di colpo correndo in casa.

Dove vuoi andare?, non capivo quello che faceva.

Ma lui non mi ascoltava nemmeno.

Dove stai andando?- gridai, afferrandolo per un braccio.

Lui si bloccò, come stupito; sembrava sul punto di dirmi qualcosa ma non riusciva a trovare le parole, non riusciva ad articolarle. Poi, dopo quell’esitazione, mi guardò smarrito e mi urlò che non dovevo toccarlo.

Non mi devi toccare! Te ne devi andare! Vattene via!

Rimasi scioccata e non riuscii a ritirare la mia mano che giaceva abbandonata e smorta. Restammo così per qualche istante. Avrei voluto non reagire e invece urlai anch’io, anch’io smarrita, anch’io violenta.

Tu sei pazzo!

Ancora una volta parole sbagliate e pesanti. Ancora una volta lo vidi perso in quelle mie parole, dietro ad esse e vidi me rincorrere entrambi: le parole avanti, veloci, Igor dietro, sgomento e poi io, sbagliata più delle mie parole.

Lo gridai ancora e più forte. Non mi controllavo più. Né lui controllava se stesso: mi allontanò da sé con uno strattone, andò verso la porta, afferrò la maniglia, esitò, si voltò a guardarmi e correndomi incontro mi abbracciò forte, tanto da farmi male. Mi baciò forte, anch’io lo baciai e poi mi disse lievemente Te ne devi andare! E più me lo ripeteva e più mi baciava e più io lo accarezzavo. Mi aggrappai a lui con tutte le forze.

Tutto fu violento e disperato, anche il distacco: fu come perdere un arto: sentii la carne lacerarsi e rimanere vuota di sé.

Non voglio perdere il tramonto, è quasi ora. -risoluto.

Vengo con te, dissi.

Non si oppose, ma sapevo che il silenzio di Igor non era mai stato assenso. Andai con lui, verso il mare, ma fu come perderlo una seconda volta: mi stava accanto ma era lontanissimo. Come può creare il gelo dentro di sé e intorno in modo tanto definitivo da trasmetterlo anche a me e, allo stesso tempo, renderlo inaccessibile? Come ci riusciva? Gli stavo accanto ma non gli stavo dentro e non potevo più afferrarlo, né toccarlo e neppure riuscire a vederlo.

Tornai a casa senza di lui.

Il giorno dopo mi concesse un’ultima carezza che a me suonò come uno schiaffo: alcuni versi di Whitman:

Addio, mia fantasia- ( avevo qualcosa da dire,

ma non è ancora il momento- il meglio che chiunque

debba dire

è quando è tempo e luogo- e quanto al significato

mi tengo il mio fino alla fine).

Igor.


Vorrei vederlo, ora. Per sentirlo parlare, per percorrere ancora una volta la linea delle sue labbra, il suono della sua lingua...

Ma forse non è ancora né tempo né luogo.

Camminare a quest’ora per strada, sotto il tramonto che piano piano si stempera, è inebriante e mi regala un certo senso di leggerezza. E vorrei dirlo a Igor.

Ho ancora le chiavi di casa sua e apro. Le finestre sono spalancate e le stanze sono invase da decine di mosche che volano freneticamente in circolo dappertutto. Lui se ne sta perso dietro ad un videogiochi di suoni e di colori. Forse è lì da diverse ore. La stanza è completamente buia.

È questo il tempo e il luogo? È adesso?- chiesi a mezza voce, avvicinandomi a lui. E’ passato molto tempo e forse non ricorda nulla. Aggrotta le sopracciglia e tace. Poi si volta con sguardo interrogativo.

Prendo dal comodino il libro di Whitman, sicura di trovarlo lì, al suo posto. Rileggo i versi. Lui va a sedersi sul letto.

Mi chiede di leggerli ancora, chiudendo gli occhi.

Lo faccio questa volta con molta più enfasi, incoraggiata dall’atmosfera patetica che si è creata. E dopo si crea un lungo silenzio.

No, non è ancora questo il tempo – dice scuotendo leggermente la testa - Non è ancora questo il luogo. Perché non ho proprio niente da dire. Cosa potrei dirti con questa nausea?

Seduta accanto a lui - Anch'io sento la stessa sensazione e spesso il buio della mente è così diffuso che vorrei davvero chiudere con me stessa, per non essere costretta a doverlo anche soltanto avvertire, dico

Non devi volerlo, è già successo: abbiamo già chiuso con noi stessi. E già da molto tempo.

Esausta affondo la testa nel cuscino e lì rimango.

D’un colpo, poi, avvicina la fronte al mio viso e prende con essa ad accarezzarmi la guancia, leggero, tenero… scivola così lungo il mio collo, la gola, il petto, il ventre e lì si trattiene.

Poi bruscamente torna al suo gioco. Smarrito in sé.

Non era né il tempo né il luogo e non c’era proprio nient’altro da dire.

Ciao.

Se n’era andato.

Brano tratto dal romanzo inedito

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne
di Maria Luigia Longo

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