mercoledì 3 agosto 2011

4 giugno e 5 giugno


4 giugno


Comunque la compenetrazione ci fu. E di questo ero e sono consapevole. Ma allora perché c'è stato bisogno di usare le parole? E perché non ho trovato quelle giuste?

La verità è che non esistono parole giuste. Non dovrebbero esistere parole.


5 giugno


Stamattina mi è capitata una cosa ben strana.

Non avevo alcun motivo per alzarmi dal letto e non riuscivo a trovarne. Il mio estremo stato di abbandono mi obbligava a non volerne. Perché avrei dovuto alzarmi e vivere? Perché avrei dovuto guardare me e gli altri con occhi meno stanchi? Perché affrontare la fatica di trascinare la mia vecchia carcassa tra i risolini delle bocche altrui e i miei soliti pensieri autolesionistici? E per chi? Non avevo voglia di scuotermi né di prendermi cura di qualcuno, e, anzi, la presenza anche lieve dell’altro mi avrebbe fatto troppo male. E così sono rimasta a letto fino a tardi, spossata.

Poi però non ho potuto fare a meno di costruire immagini e di posare la mente, seppur ancora molto frenetica, su qualcuna di esse. Ho cercato di non pensare, ma le immagini nascevano sempre più numerose e affollavano saltellanti la scena. Al limite di una crisi di nervi ho pensato che non c’era niente di meglio per non pensare dello sforzo fisico: dovevo fare footing! Nel giro di dieci minuti ero già in tuta e fuori di casa. Ho fatto un giro nel parco. Ho ricominciato a pensare e la paura mi ha dato la frenesia di cercare un rimedio per non farlo, quindi sono andata da Igor.

Ho preso un autobus al volo: rumorosissimo e fastidiosamente arancione.

Ricordo bene la prima volta che vidi Igor. Eravamo all’uscita di un cinema. Il film? Underground. Lui era in compagnia di alcuni amici. Seduto stretto stretto su un gradino: viso da intellettuale depresso e disilluso. Era quasi inerte. La nostra frequentazione assidua nacque probabilmente da un malinteso creato da alcuni miei movimenti: lui se ne stava sempre in disparte dalla conversazione ma attento ad ogni mia parola o gesto. Aveva la luce di un lampione alle spalle, in modo che ero accecata e non riuscivo a vederlo in viso. Ad un certo punto, lo ricordo bene, mi avvicinai a lui e guardandolo negli occhi gli dissi sorridendo che non riuscivo a vederlo perché accecata. Non riesco a vederti…oplà! e mi avvicinai. Lui sobbalzò, probabilmente credendo che mi piacesse o che volessi baciarlo o altro. E a me probabilmente piacque che lui avesse potuto pensarlo. Ecco, fu soltanto questo l’equivoco che ci avvinse, ma da allora ci vedemmo ogni giorno, cercando di penetrarci.

Pensare ad Igor mi ha regalato un’insolita dolce parvenza di serenità.

Quando sono arrivata a casa sua però l’ho trovato sconvolto. Anche lui. Stava sul letto e guardava il soffitto. Estremamente assente a se stesso.

Non sapevo come comportarmi né cosa dire. Proprio io, che stavo peggio di lui. Io non sapevo cosa dire e lui non aveva voglia di fare niente. C’era ben poco da fare nella penombra di quella stanza. Mi sono seduta accanto a lui, al bordo del letto e, prendendogli la mano, l’ho stretta forte, per fargli sentire la mia presenza senza dover parlare. La sua mano stavolta mi sembrava non solo piccola, ma orrendamente fredda e abbandonata nella mia. Siamo stati per un po’ così, in quella posizione e ciascuno con il proprio stato d’animo.

Poi ho preso ad accarezzargli la nuca, coperta da una cascata di riccioli neri arruffati a ciocche. Lo accarezzavo con tutta la dolcezza che sono riuscita a recuperare in me e un po’ ho dovuto anche inventarmela. I suoi occhi erano sempre fissi sulla parete. La sua mano invece, col passare dei minuti, cominciava ad essere un po’ sudata e comparata dalla mia mente ad un lombrico. Ho tentato di smuoverlo lasciandola cadere sul letto. Aspettavo una sua reazione. È arrivata: con un gesto felino, a dispetto del suo essere inerte, mi ha riafferrato la mano e se l’è tenuta premuta sul petto. Sentivo il suo cuore battere veloce. Adesso i suoi occhi erano su di me, completamente. Occhi che palesemente chiedevano aiuto. Erano tenerissimi e sperduti. Il cuore pulsava e lui stringeva forte la mano, e questo faceva battere veloce anche il mio. Mi sono chinata su di lui sfiorandogli la fronte con un bacio, a labbra socchiuse.

Stammi vicino con un filo di voce.

L’ho sfiorato ancora, ma stavolta con più pressione e sulla bocca.

Non te ne andare dice ancora, in un fremito. Solleva lento il suo corpo e mi posa la testa (tenuta bassa durante tutto il movimento) sulle ginocchia e vuole che gliel’accarezzi. Lo faccio con più trasporto di prima e gliela sollevo e la stringo forte al petto.

Riesco a sentire il cuore mi dice.

Stiamo così per un tempo bellissimo e quasi illimitato, riempito solo dal nostro essere finalmente insieme, naturalmente. Credo che lui abbia anche pianto. Abbracciata ad Igor, la mia mente aveva abbandonato la frenesia e si concentrava ora solo su quell’istante. La leggera percezione di me e dell’altro era così gradevole che tutti i miei tremiti si sono dileguati e io ho abbracciato ancora più forte quel corpo smorto che per me costituiva paradossalmente la vita.

Non riesco più a sopravvivermi - dice squarciando il silenzio.

Sono disgustato- continua in tono conclusivo.

Da cosa? - chiedo, anche se avevo già capito.

Da tutto. Dalla vita, ma non dalla vita in generale o in astratto. No! Sono disgustato da tutto. Anche dal sole la mattina appena sveglio: mi lascia sulla pelle una sensazione di bruciore. Mi disgustano gli oggetti che guardo...

Come “gli oggetti che guardi”? ripetei.

Non riesco a fissarli a lungo senza esserne risucchiato e disgustato. E il loro colore, la forma e tutto ciò che è loro mi investe e mi travolge, non dandomi pace. E ne sento la pesantezza ovunque. Capisci? Sul mio corpo, addirittura nella carne.

, io.

E non è solo la presenza degli oggetti che mi disgusta, ma anche quella delle persone: non riesco a seguirle mentre parlano, mi allontano non so dove e ritorno senza neanche accorgermi di cosa ho pensato o del perché me ne sono andato. La mia mente è un vortice disgustato di sé. E mi spaventa il contatto fisico (non capisco come con te possa essere diverso, proprio adesso che sono all'apice della mia nausea), mi ferisce e mi lascia disseminato in un non so che di impercettibile. Come faccio a continuare così?

La domanda non ha trovato risposta. Non da me.

Adesso piangeva e anche quelle lacrime lo immettevano violentemente nel vortice.

Aiutami.

La richiesta di Igor giunse come una valanga.

Lui era completamente accucciato su di me, con un movimento leggero quasi impercettibile gli sfioravo appena la nuca. Il contatto dei suoi capelli mi penetrava la mano e sentivo un brivido corrermi lungo la schiena e molto più giù. La mano è scesa fino al collo: caldissimo. Avevo paura di fargli male e lo accarezzavo toccandolo appena. I polpastrelli creavano ambigue geometrie sulla sua pelle ormai pulsante di eccitazione, e pulsavano anch’essi. Era completamente abbandonato in me e muoveva il suo corpo (e a me sembrava anche la pelle) in modo da assecondare il mio tocco. La mia mano continuava a scendere (l’altra era immobile sulla mia gamba sinistra e partecipava per emanazione all’orgasmo dell’altra), ed è giunta alla schiena. Lì il calore morbido aumentava a mano a mano che scendevo e la percorrevo tutta.

Frattanto gli baciavo il capo. Il solo contatto dei polpastrelli non mi è bastato più e ho preso ad amarlo con tutto il palmo e con una pressione più profonda e più veloce. Poi l’ho baciato a labbra dischiuse sotto l’orecchio, poi proprio l’orecchio, il lobo cartilaginoso e quasi pendente e poi ancora il collo. Ripetutamente il collo.

Come penetrargli l’anima senza ferirlo? Come entrargli dentro senza dolore?

I sussulti si facevano sempre più forti e immaginai che la situazione stava per precipitare, e desideravo che esplodesse. Ormai lui non piangeva più e questo mi diede maggiore irruenza: cambiammo velocemente posizione: lui si è disteso completamente sul letto, supino, e io, seduta sulle sue gambe e sbottonatagli la camicia, ho incontrato il suo petto: ampio, liscio e ansante. Ho sfiorato i capezzoli, riempito di baci tutto il torace fino all’ombelico e più giù…

Era completamente abbandonato ai miei slanci. Le mie mani lo visitavano ovunque. Le sue? Abbandonate da qualche parte. Ho sentito il bisogno impellente di lasciare che altri miei strati di pelle godessero di quella pace e così mi sono tolta la maglia e ho appoggiato il mio petto sul suo.

Per un tempo lunghissimo ci siamo amati così.

Poi lui, con un sussulto più forte degli altri, mi ha preso i fianchi e ha incominciato ad accarezzarmi la schiena e a baciarmi le spalle e tutto il resto. Ho vacillato.

Il suo tocco era leggero e probabilmente dolce, ma mi è sembrato violentissimo. Mi ha trapassato la carne. Ho fermato di colpo ogni più piccolo movimento.

Dopo è stato tutto più veloce e confuso ed io ho perso lucidità: mi sbottona i jeans, mi viene sopra, mi sussurra ti amo! all’orecchio.

Da quell’istante qualcosa in me si è rotto, allontanato: ero sempre lì, abbracciata ad Igor, ma distante. Ho sentito compiersi uno sdoppiamento, una rottura in due parti: una, come uscita fuori da me, guardava compiere i miei gesti, piuttosto disgustata. Il disgusto lo provava lei! non io. La mia parte distaccata diventò cinica e sarcastica nei miei confronti e di quell’istante. E soprattutto nei confronti di quel ti amo! così superfluo che ha rotto l’unità di noi due sigillata dal silenzio. Ecco forse il disgusto di cui mi aveva parlato poco prima lo stesso Igor; ero rimasta paralizzata dalle sue mani e dalla sua voce e mi accorgevo solo dell’assenza di me. Che necessità c’era stata di rompere il silenzio! Che necessità c’era stata di dirlo! Ma non era solo per questo, allora cos’era? Cosa era successo? E adesso cosa so di me?

Io ero sempre sdoppiata e lei sempre più cinica e beffarda. Io inerte e lei disgustata. Allora ho cercato di ricomporre l’unità e…abbiamo fatto l’amore. Ma nessuna delle mie parti partecipava con abbandono. Nessuna. L'ho odiato. E ho odiato me o l'altra parte di me. Quando abbiamo finito né io né Igor abbiamo parlato, né ci siamo guardati. Io mi sono rivestita in fretta e sono corsa via, in frantumi.

Mi stavo dileguando in una miriade di frammenti che viaggiavano ovunque.

Dove poter rintracciarmi...in tanto dolore? In quale deserto poter ritrovare la calma? Perché tanto smarrimento?

Brano tratto dal romanzo inedito

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne
di Maria Luigia Longo

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