In un istante la vita può avere la forza di
trascinarti in luoghi da cui è impossibile tornare. Capita all'improvviso di
vedere inerme sul viso dell'uomo che ami i segni della tragedia che sta per
arrivare. Il suo corpo appare ad un tratto come la mappa delle sue mancanze ma
anche della tua impotenza. E di solito quella mappa non ha con sé navigatore o
libretto delle istruzioni. Quel corpo diventa l'eco di ciò che è stato e non si
può fermarne il declino.
Questo è quello che penso ogni volta che resto seduta
davanti alla porta degli studi medici che fagocitano mio marito e lo
trattengono per esami, accertamenti, visite di cui poi, alla fine, mi rimane
solo la sensazione di terrore e di
perdita del controllo sulle nostre vite. All'inizio lo seguivo anche lì,
rispondevo per lui, lo aiutavo a muoversi, ma ora lo conoscono e sanno come
prenderlo. Preferisco aspettarlo qui fuori. Mentre lui sparisce dietro i camici
bianchi io resto sospesa in un tempo fatto d'angoscia e di pensieri fluttuanti
che la mente cerca di ancorare attorno a ricordi positivi di episodi familiari.
Ripenso a com'era quando l'ho conosciuto, alla sua energia che ormai non c'è
più. E' difficile continuare ad amare una persona che vedi solo attraverso ciò
che non è più. E questo è avvenuto con poche avvisaglie per cui, all'inizio, lo
prendevo anche un po' in giro. La malattia, questa malattia, sa
prendersi beffa della serietà di un uomo e all'inizio si mimetizza con le
disattenzioni quotidiane, quando invece si palesa è già troppo tardi. E adesso
lo è.
Quando due anni fa ci hanno diagnosticato l'Alzheimer
(dico ci perché coinvolge più esistenze), ho iniziato ad attaccare come
figurine in un album tutti gli episodi in cui Ettore è stato distratto o ha
perso o dimenticato qualcosa.
All'improvviso hai dimenticato con crescente
frequenza chiavi, portafogli, agende, relazioni, incontri. E, da un certo
momento in poi, la casa si è riempita di oggetti che avevi usato tu e che,
nonostante fossi ordinato, non avevi più riposto: tazze, bicchieri, riviste,
panini lasciati a metà.
La prima volta è stato quando ti ho trovato davanti
al frigorifero aperto, con la lista della spesa in mano.
“Questo non l'ho preso” e scuotevi la testa. “
Neanche il latte” e scorrevi il foglietto che avevi preparato prima di uscire.
“L'età avanza, papà?” Cecilia che nel frattempo era
entrata per bere.
Ci avevi guardato con un'espressione che adesso
capisco davvero.
“Marta, ho comprato altre cose” e ti sei seduto a
rileggere la lista “Ho dimenticato il latte, lo zucchero; ho preso tre
dentifrici, ma non ci servono”.
“Ettore, pazienza! Il latte e lo zucchero va a
comprarli Cecilia.”
“ Ragazze, io non vado più al supermercato. Troppa
gente, mi dà fastidio, mi scordo le cose... ” e lo dicevi come se ne sentissi
ancora la sensazione addosso.
“ In effetti il sabato è un inferno!”
“Ma poi tutti quei colori, la musica alta, mi mandano
in tilt!” e mi hai abbracciata, in cerca di un rifugio.
Dopo qualche giorno la tua espressione smarrita si è
ripetuta all'uscita del cinema: ti sei fermato e ti sei guardato attorno. Hai
portato la mano al mento, come quando vuoi ricordare qualcosa. Io aspettavo, ridendo. Poi hai allargato le
braccia in segno di resa.
“Marta, ma dove abbiamo parcheggiato?”
“Stai proprio invecchiando, tesoro!” Ti ho preso a
braccetto e ti ho indirizzato. Anche quella volta ci abbiamo riso su.
Qualche giorno dopo è stata la volta del PIN del
bancomat al ristorante. Anche lì ti sono venuta in soccorso.
“Non l'accettano?”
“Sì, ma è che non prende il PIN”
“L'hai digitato bene?”
“Prova tu!” e avevi già quell'espressione di allarme.
“Ma te lo ricordi il numero?”
Come risposta mi hai dato solo quello sguardo
confuso.
“Marta, io proprio non me lo ricordo”
Le attese sulla sedia della clinica sono l'unico
momento che ho per ripensare a tutto. So che è inutile e che non servirà né a
te né a me continuamente ripensare agli inizi, ma ho bisogno di collocare la
nostra situazione in questo mondo: avere un riferimento temporale mi fa
pensare che siamo ancora nei confini dell'umano e che posso farcela a gestire
tutto. Ho bisogno di sapere che c'era un prima in cui stavamo bene,
altrimenti mi cade tutto addosso.
Ricordo che abbiamo iniziato a preoccuparci quando ti
sei accorto che avevi delle perdite di equilibrio e in due casi sei anche
caduto: un uomo alto e solido come te!
“Ettore, stai bene?”
“Sì, è che avete spostato il tappeto e sono
inciampato!”.
“E' sempre stato lì” ho risposto “Ma poi solleva i
piedi quando cammini! Continui a trascinarli!”
Quello è stato un periodo pieno di tensione perché
eri spesso arrabbiato, nervoso e pieno di sospetto: quando non trovavi qualcosa
era perché qualcuno te l'aveva spostata o nascosta e si divertiva a farti
impazzire. In quel periodo la malattia ha provato a metterci l'uno contro
l'altra.
L'attesa mi dà modo di stare in silenzio, cosa che
quando sto con te ormai non faccio più: ti parlo e ti spiego tutto quello che
avviene, in una sorta di reportage continuo. A voce alta, come se fossi sordo.
Restare seduta qui, davanti alla porta chiusa del
medico, mi dà la possibilità di riordinare le idee, di fare il punto della
situazione e di dare un nome alle cose. Altra cosa che tu non sai fare più, ad
esempio. Adesso lo so che la perdita del linguaggio è uno dei sintomi della
malattia e tutti gli scambi di lettere
di parole assonanti o non assonanti ora non mi fanno più ridere. La loro
frequenza costituisce l'inizio del declino.
“Ettore, dove hai messo il giornale?”ti ho chiesto
una volta.
“Lì sul cavolo” e poi hai ripetuto subito la
parola corretta, come per fare in modo che nessuno sentisse, ma ormai era
successo e non siamo più riusciti a recuperare. Lo sfaldamento del linguaggio è
stato progressivo e ha coinvolto nomi, verbi e poi intere frasi. Ora non parli
quasi più, biascichi qualcosa che rimane sospeso come rumore di fondo.
Guardo nella borsa e trovo tutto quello che ti è
necessario per mantenere un'esistenza dignitosa: i tuoi documenti (anche quelli
della malattia), i fazzoletti per asciugarti la saliva che hai iniziato a
perdere, le salviettine per pulirti quando te la fai addosso, un pannolone, le
tue medicine. C'è anche il tubo delle bolle di sapone. Non sono di nessun
bambino e non l'ho comprato per sbaglio: sono per te. Le avevi viste una volta
all'ingresso del centro commerciale e sei rimasto a guardarle, rapito. Non
riesci a soffiare dentro il sapone e le bolle proprio non escono, ma a quello
penso io: tu guardale solo muoversi nell'aria leggere, con quell'espressione
rapita di una coscienza impalpabile e lieve.
Mi guardo riflessa nel vetro opaco della porta che dà
sul corridoio dell'altra ala della clinica e vedo una donna che in tutto
assomiglia a me, ma che è tenuta in piedi da ciò che eravamo.
Quando tu sarai completamente assente riuscirò a
tenere da sola il peso di ciò che eravamo?
2 commenti:
Ettore.....appena leggi il racconto ti entra nel cuore e con lui tutte quelle persone che gni giorno lottano contro l'inevitabile. grazie gigia.
Be', grazie davvero!
A me Ettore regala sempre molta dolcezza...
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