lunedì 30 maggio 2011

Per forza

A quel tempo avrei potuto entrare in macchina e partire per un lungo viaggio e invece mi ritrovavo sempre a percorrere i soliti brevi tragitti che mi portavano per le strade polverose della città. Vivevo allora in compagnia di Mattia, un uomo che avevo conosciuto casualmente tre anni prima al mercato grande. Strano incontro al banco del pane e strano anche Mattia, il genovese che mi raccontò la storia del galletto.

Era uno stimato insegnante di fisica all’università degli Studi della Basilicata, dove peraltro trascorreva la maggior parte del tempo. Perso tra i suoi numeri e le sue formule, trascurava piuttosto banalmente la realtà. E me. Ma a quel tempo a me andava bene così. Consideravo Mattia quasi un pezzo della nostra casa, quasi come il terrazzo da cui guardavo il mondo: la sera tornavo dentro i suoi confini e mi affacciavo ai miei pensieri.

Non l’avrei sostituito con nessun altro uomo, ma non gli avrei mai permesso di seguirmi nei vagabondaggi del mio spirito. Aveva imparato a conoscermi e a starmi accanto senza essere invadente. Ed io avevo imparato ad accettare con benevolenza il suo essere sistematico.

Ci amavamo, ciascuno a suo modo.

Le giornate a quel tempo passavano in fretta senza che io avessi neanche il tempo di notarne i mutamenti.

L’unica cosa che fissavo in me era il rumore strisciato della tenda di bambù sospinta ritmicamente dal vento. Quella estate fu molto calda e particolarmente ventosa, mi ricorda tanto quella di un viaggio fatto in Grecia qualche tempo prima.

Le serate si concludevano quasi sempre allo stesso modo: Mattia dentro, davanti al computer, ad elaborare dati oppure a guardare vecchi film ed io, seduta sulla sdraio in terrazzo, a guardare fuori, sorseggiando del vino. Nella sua fissità atemporale, la distesa dei Sassi , come due robuste braccia allargate in un pietroso abbraccio, mi aveva catturata fin dalla prima volta che avevo messo piede in quell’antica città: mistica e triviale allo stesso tempo. Lungo il crinale della murgia, mi sentivo come persa in qualche augusto angolo della storia dell’uomo, quella importante. E questo mi piaceva molto.

Sospesa a mezz’aria tra i pensieri e le antiche rocce, avvertivo il lento fluire del tempo come un privilegio di quella città cui non avrei più saputo fare a meno.

Di tanto in tanto, io sul terrazzo e lui davanti al computer, scambiavamo qualche considerazione, ci raccontavamo le nostre giornate. Il resto era silenzio.

E, in fondo, pace.

Passavo molto tempo per strada, fra la gente. Ero un’insegnante di scuola elementare senza figli e con una grande passione per i bambini, oltre che per i libri. Al mattino avevo preso l’abitudine di svegliarmi presto, anche d’estate, e fare colazione al bar sotto casa; sfogliando il giornale, approfittavo per chiacchierare con i soliti frequentatori del bar, alcuni dei quali forestieri come me. Avevo imparato ad apprezzare quella strana cadenza locale che all’inizio mi irritava. Era come se la lingua nel suo incedere, aspro e cantilenante insieme, seguisse perfettamente una linea sinuosa non molto dissimile dal profilo della murgia, incespicando in qualche consonante per inabissarsi nelle vocali e spegnersi lì. Imparai anche a parlare il dialetto.

Di mattina solevo camminare molto: dopo le chiacchiere al bar e quelle davanti all’edicola, abbandonavo volentieri le vie del centro per addentrarmi nei sentieri dei Sassi. Lì, in un cantuccio un po’ appartato, intervallavo le mie letture poetiche con riflessioni che, sotto il sole cocente di agosto, spingevo sino ad una sorta di balbettio intellettivo. Una certa poesia mi aveva regalato l’idea di una assoluta adesione della parola alle cose e con quell’idea vivevo, partecipando panicamente alla natura, che in quella regione d’Italia si manifesta con l’estro di un divenire imperituro.

Le mie giornate erano scandite sempre dalle stesse azioni: tornando a casa acquistavo il pane, andavo al mercato della frutta, mi fermavo a comprare del pesce che Mattia adorava e, una volta alla settimana, piante e fiori per quel terrazzo da cui guardavo il mondo.

Sul finire del giorno, nel mentre di qualche tramonto d’estate, rimanevo intrappolata nella visione delle rondini tutt’intorno in volo: sparpagliate a seguire velocissime traiettorie che ricalcavano nelle mia mente desideri mai rivelati. Sospinte da imprevedibili venticelli, seguivano le linee variopinte dei tramonti, ed io con loro. Su quel terrazzo. Da cui scrutavo il mondo.

Un giorno come tanti, semplice come tutti gli altri, tornando a casa fui sorpresa da una fatto che di per sé non aveva nulla di singolare ma che lì per lì mi risultò alquanto bizzarro. Vidi appoggiato al portale del Duomo un uomo elegantemente vestito con in mano un bel mazzo di fiori. Un bel mazzo di gerbere bianche. Quando ripassai di là, dopo la consueta camminata, quell’uomo era ancora lì, appoggiato allo stipite della porta maggiore. Richiamava il suo intreccio a canestro, pareva quasi una delle sue sculture ornamentali.

Un po’ defilata, dall’altra parte della piazza, restai a guardarlo per qualche minuto: rimaneva, tutto impettito come un uomo d’altri tempi, ad aspettare qualcuno, senza mostrare alcun segno di impazienza.

Il giorno seguente quell’uomo era ancora lì, nella stessa posizione e allo stesso modo del giorno prima e così anche il giorno dopo e quello successivo ancora. Indossava un abito di lino chiaro, con una camicia bianca e la cravatta arancione e vestì gli stessi abiti anche nei giorni seguenti, cambiando soltanto la cravatta prima arancione, poi azzurra, poi amaranto.

Aspettava qualcuno, senza tradire alcun segno di impazienza. Aspettava una donna che tuttavia non arrivò mai. [...]


Brano tratto da Per forza, Trilogia dell'incontro e altre storie

Menzione speciale al premio letterario Alla luce delle Mainarde 2005


6 commenti:

Michela ha detto...

Bellissimo....è uno dei miei racconti preferiti. E ho anche la fortuna di sapere come va a finire...

Anonimo ha detto...

E infatti stavo scrivendo: CHE CAVOLO!! CI LASCI COSì??? COLLEGA CATTIVA...
la Simo

Maria Luigia Longo ha detto...

vedremo...

Anonimo ha detto...

e´proprio bello questo racconto...anche il resto.
laura

Maria Luigia Longo ha detto...

grazie, laura!
le tue parole mi fanno davvero felice.
un abbraccio grande

Anonimo ha detto...

oh, brava... ora mi prendo il tempo di gustsrmi il finale...
la Simo