mercoledì 19 settembre 2012

Estate 1983.




Eravamo in quattro: io, mia sorella - più piccola di me di due anni - e due cugini che si erano trasferiti all'estero con la propria famiglia. All'estero per me, allora, voleva semplicemente dire che abitavano fuori paese, festeggiavano il natale da soli e non potevano parlare il dialetto con nessuno, se non quando chiamavano di tanto in tanto a casa di nonna. C'incontravamo sempre e solo d'estate e ci divertivamo a compiere memorabili imprese per cui eravamo famosi in tutta la strada. Io risultavo la più capace di girare in montagna, in campagna e nei boschi. Seppur loro fossero più alti e forti di me e più grandi di un paio d'anni, erano ormai di città, come diceva nonna, e avevano paura di tutto: degli insetti, dei cani, dei rovi. Di correre. Allora avevo forse otto anni e io non avevo paura di niente. Una volta ci mettemmo in testa di montare da soli un'altalena proprio sull'albero più alto del bosco dei nonni. L'idea era venuta a Nicola - il cugino più grande - che voleva fare un regalo a zia Lucia che non saliva su un'altalena da almeno cinquant'anni, da molto prima della seconda guerra mondiale. L'avremmo aiutata noi a dondolarsi su e lei avrebbe riso. Zia Lucia aveva una così bella risata che non si può immaginare. Ci mettemmo quasi una settimana intera per preparare la tavola di legno da utilizzare come seduta, per trovare e regolare le corde e per salire sul ramo più resistente e annodarle in maniera che non si sciogliessero. Quando la zia morì improvvisamente avevamo soltanto fatto in tempo a fare un giro a testa sulla nostra altalena nuova e non ebbe modo neanche di vederla. Dopo non la usò più nessuno e quasi di colpo smettemmo persino di parlarne.
(Ricordo in forma di narrazione)




lunedì 10 settembre 2012

Balocchi di parole


Giocavamo a raccontarci i sogni, Sam e io, baloccandoci con le parole, lì nella sua cascina in via delle Frottole numero 3. Passava a prendermi tutti i giorni dopo il lavoro. Lavorava per tre giorni a settimana in un autolavaggio di proprietà di un amico del padre. Lui, ragazzone biondo dal viso tondo (così lo motteggiavo spesso io), in sella alla sua Atala rosso fuoco arrivava sotto la mia finestra e suonava per due volte il campanello della bici ed io, già pronto, scendevo e prendevo posto sul sellino posteriore. Percorrevamo in pochi minuti il centro, dove io abitavo, poi di corsa verso il lungomare, d’inverno deserto. Lo attraversavamo tutto e, quando ci sembrava di arrivare al limite massimo della scogliera, si allungava ancora e poi, ancora per non so quanti chilometri, arrivava fino alla cascina di Sam, attraverso una stradina polverosa.
Alla nostra sinistra, il mare spumoso devastava la costa, mentre ci lasciavamo alle spalle il paese che già cominciava ad illuminarsi. E più ci allontanavamo più la brezza s’alzava e il mare frangeva la quiete desolata di quel lembo d’Italia. Correva veloce, Sam sull’Atala riverniciata da poco, mentre io, rincantucciato dietro le sue spalle, mi riparavo dal freddo. Aveva spalle tanto larghe che per guardare avanti dovevo sporgermi di molto e tirare fuori la testa come un cucciolo dalla sua tana, ma lo facevo di rado e solo quando non avevo dimenticato a casa la sciarpa.
Lungo la strada lui canticchiava sempre e mi metteva di buon umore.
L’abbaiare festoso di Attila, pastore maremmano perennemente incatenato davanti alla porta d’ingresso, era il segno che eravamo arrivati.
-Se ne sta tutto il giorno accucciato, questo grassone!- diceva sempre Sam, accarezzandolo lungamente e arruffandogli il pelo ispido e sporco di terra. Io rimanevo a guardarli per un po’ poi distoglievo lo sguardo, per non turbare quel loro strano momento di intimità (non avevo mai visto Sam tanto tenero come quando accarezzava il suo cane) o forse perché tanta tenerezza turbava me: la dolcezza di un uomo ancora oggi un po’ m’imbarazza.
Tutt’intorno c’erano alberi di mandarini, arance e limoni e in fondo, lontanissimo, irraggiungibile… il mare.
Dietro, a qualche chilometro di distanza dalla casa, nascosta anch’essa dagli alberi, s’intuiva dallo strepito del treno l’esistenza della ferrovia: un unico binario che in due ore e venti minuti collegava il paese al capoluogo.
La cascina, una costruzione non dipinta formata da appena due stanze (una per piano) collegate tra loro da una scala interna in legno, era rimasta chiusa per anni, da quando cioè il nonno – che se ne occupava – era morto, precedendo di soli sei mesi la moglie, nonna Mena. Sam era molto legato a quel luogo e adesso che era diventato più grande aveva deciso di occuparsene. Era quieto, Sam e in quel posto lo diventava ancora di più.
Noi ci andavamo quasi tutte le sere: spalancavamo le finestre, tenendole aperte quell’attimo che basta per dileguare dalla stanza quel fastidioso odore di chiuso – come di muffa attaccata alle pareti in pietra – poi, accendevamo il camino (io prendevo la legna accatastata nel sottoscala e Sam l’attizzava) quindi ci mettevamo a sedere, lì vicino al fuoco. Stavamo sempre uno di fronte all’altro. Mi guardava a stento Sam, teneva invece lo sguardo fisso sulla legna che ardeva. Capo chino, fumava inspirando il fumo a boccate lente, profonde…lunghe.
In genere bevevamo vino rosso.
A volte mangiavamo pane abbrustolito condito con sale e olio d’oliva o, altre, patate cotte sotto la cenere.
Poi all’improvviso cominciava a parlare, sorretto da parole che sembravano giungere da lontano, come scortato da esse. Non ho mai ben capito perché si decidesse a parlare. Mi raccontava qualche episodio della sua infanzia, avvenuto in quel casolare e di quando la famiglia si ritrovava lì, tutta al completo. Parlava dei suoi nonni quando lavoravano e vivevano lì, dei riti del lavorare la terra, delle stagioni e delle abitudini che le accompagnavano e, in un certo senso, scandivano. E di come si avvicendavano la preparazione del vino, dell’olio, del salame, la raccolta degli agrumi, la vendita in paese e nei paesi limitrofi, la preparazione delle marmellate. Diceva che quelli erano eventi precisi della terra e che, durante ognuno di essi, il cielo si vestiva di un colore diverso, appropriato (lui adoperò la parola giusto). Più grande di me di appena due anni, quando parlava sembrava già adulto, un uomo fatto che si faceva nel momento in cui parlava. Quasi che fossero proprio le parole e soprattutto alcune – quali terra, cielo, rito, sangue…- a dargli dignità di uomo, perché esse stesse depositarie di senso, di una forza propria. Seguivo, ascoltandolo, i movimenti della linea irregolare che gli attraversava la fronte, pareva essere congiunta – come affratellata – alle labbra e quando queste si adoperavano in un sorriso quella pure si tendeva, dileguandosi.
Era quieto, Sam e quando raccontava lo era ancora di più.
Alcune sere leggevamo qualche passo del libro di Alvaro che mi aveva regalato mio padre, Gente in Aspromonte, altre invece c’intrattenevamo con qualche poeta. Albino Pierro era il suo preferito. – Le sue parole sono come pietre – diceva. Amavo leggere a voce alta e lui amava ascoltare, dopo commentavamo oppure lasciavamo le idee perdersi nei pensieri. In silenzio.
Una sera anch’io ho incominciato a fumare.
-Respira a fondo. Lungamente! Esclama lentamente, mentre inspiri, Mamma mia! E imparerai subito, vedrai! – mi disse il buon Sam.
Tre colpi di tosse, una fitta nel petto…e via! Anch’io a far parte del popolo dei fumatori!
Ai ricordi, poi, seguivano i sogni.
Nascevano da giocose associazioni verbali, da catene di immaginifici significanti. Restavamo incatenati alle parole per ore ed ore, baloccandoci con esse fino a notte fonda. Il gioco voleva che a turno ognuno dicesse una parola o addirittura una frase che per assonanza richiamasse quella precedente, estendendone il senso o contrariandolo, secondo quello che in noi suggeriva. Bosco,fosco, nero, vero, velo, fumo, fuoco, fioco, spento, lento, mento, sgomento, spavento, scontento, argomento, libro, storie, favole, narrazione, nazione, Italia, sud, nord, terra, zolla, sudore, dolore, stupore, sapore, dolce, amaro, aspro, selvaggio, foraggio, coraggio, omaggio, viaggio, fuga…

Bosco,
nero velo
fuoco spento
spavento…
Argomento:
zolla
dolore
sapore amaro
selvaggio.
(viaggio-fuga)

Mangiare piano                                                     guidare piano
suonare il piano                                                     cantare
applaudire                                                              lusingare
donna                                                                     donna amata
mano armata                                                         bandito
brigante                                                                 rivolta
giravolta                                                               ogni volta
prima volta                                                           capovolta…

Potevamo andare avanti per ore ed ore: interrompevamo la catena verbale solo quando una parola suggeriva un avvenimento importante o un’emozione che subito raccontavamo.
A volte parlava in maniera un po’ strana, ma le sue parole trovavano sempre qualche corrispondenza in me. Intrecciava passato e presente in frasi che più che la sintassi seguivano invece il flusso di coscienza.
-Hai mai nutrito i desideri di una donna?- chiese, non attendendo risposta.
Era fine aprile, un aprile di due anni prima. Il sole avanzava languido in cielo, irretito da nuvole acquose. Minacciava pioggia da ore e dai boschi intorno s’alzava un odore pungente di terra umida. L’ampia piazza quadrata era gremita di gente: era domenica e gli anziani in gruppi discutevano di politica…
La pioggia non arrivò, arrivò invece lei: annunciata da un sorriso sfrontato incorniciato da labbra carnose e sorretta da gambe che avanzavano sicure. Era bella. A lui mancarono parole e per un attimo si sorprese a sorridere fuori dai denti. Qualcuno li presentò e divennero subito amanti. Era bello accarezzarle i capelli – disse – un rapimento baciarla…
Anna fu il suo primo amore.
Era quieto, Sam anche quando parlava del futuro. Io no. Lui sapeva già tutto: voleva sposarsi e avere dei figli, un cane; forse vivere lì.
Io di me non sapevo ancora niente. Mi pareva di vivere già solo quando Sam raccontava qualcosa nel suo modo sognante e io accavallavo mie parole alle sue.
Giocavamo così, Sam e io.
Quando, poi, tutti i discorsi si compivano, placavamo gli animi, spegnevamo il fuoco e tornavamo a casa, ciascuno con le proprie amenità. E senza più parole.
Ora sono qui, nella capitale, a cercare da anni di far quadrare i conti di qualcun altro, ma ripenso spesso al buon Sam e al suo lieve modo di porsi, al suo guardare nelle cose e al suo discreto porgere l’orecchio al mondo. Sèguita a crescere in me Sam, affabulando dolcemente.

(Maria Luigia Longo, da Trilogia dell'incontro ed altre storie e classificato al terzo posto del concorso Luigi Gullo, un racconto inedito per il sud)