martedì 9 agosto 2011

12 dicembre


Caro Igor,

questo foglio, vuoto, proviene da un quaderno importante e prezioso; pieno, proviene non so da dove. Da me, forse.

Riprendo a scriverti. Credevo non lo avrei mai più fatto. Ma scrivere mi fa bene, lo sai. Mi dà un senso fortissimo di appartenenza a me stessa.

Questo che vivo è forse uno dei periodi nei quali mi sono sentita più sola. E non soltanto lontana dal mondo, ma proprio da me. Non avrei mai creduto di dover vivere senza di me per un periodo così lungo. Mi sento sballottata, dentro e fuori e continuamente. Sento un atroce senso di estraneità quando mi muovo in mezzo agli altri, ma anche quando resto con me.

Avverto estraneità ogni qualvolta penso di vivere qualcosa di me e di mio. E l’abbandono, fuggo forse.

Mi vedo vivere, ma non mi sento vivere. Mi sento persa e non so più se sono persa in me o fuori da me.

Neppure nel sonno trovo riparo.

Poi quell’aereo l’ho preso davvero e adesso mi trovo a sud, nel sud del mio mondo. L’ho preso in silenzio e senza grossi clamori.

È passato qualche mese, ma non è cambiato molto. Non è cambiato niente.

E forse ritorno.

Anche se, in fondo, cosa cambia?

In fondo? Nulla.

Brano tratto dal romanzo inedito

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne
di Maria Luigia Longo


lunedì 8 agosto 2011

l’ora senza rintocchi


Sono certa di essere giunta alla fine. Una fine senza fine. Perpetua. Non ho più occhi per vedere e guardare al di là di essa. Non scorgo più, guardandomi, alcuno stimolo ad essere.

Hai preparato la bara? - Igor, con la sua ironia improduttiva.

Stamattina l’ultimo spettacolo. Suo e mio.

Hai preparato la bara? - di nuovo.

Non riuscivo a muovere le labbra né ad articolare alcun suono.

Perché non parli? Siamo alla frutta -disse.

Odio le tue metafore e il tuo umorismo - io, con voce roca.

Perché non parli?!-lui, sempre più nervoso.

Ma non c’ero già più, né per me, né per lui.

Avevo mille discorsi in testa ma non riuscivo a parlare.

Lui mi scrollava e mi spingeva al muro e io sono rimasta inerme. Non avevo più niente da dirgli, né frasi nella testa o pensieri brulicanti.

Ero sola ed incosciente.

Non sei ciò di cui ho bisogno- Le mie ultime parole. A lui. Al mondo.

Ti metti sotto vuoto e guardi la vita scivolarti dalle mani! Sei morta! Morta-

Ma non mi toccava già più.

Sì, forse ero morta.

Brano tratto dal romanzo inedito

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne
di Maria Luigia Longo


sabato 6 agosto 2011

8 giugno


Ho lasciato l’università nel caos più totale. In me.

Avrei dovuto dare l’esame. Ma ero in un certo stato di mente e mentre rispondevo in maniera esatta alle domande del professore, sono piombata in me. Improvvisamente. Non sono più riuscita a distinguere la mia voce da tutto il resto. Prima non sono riuscita a distingue le parole tra loro, poi la mia voce è stata assalita da altri suoni: il vociare confuso della gente alle mie spalle, il traffico delle macchine in strade lontane, il cinguettio di uccelli in volo non so dove, clacson suonati lungamente con rabbia, il rumore delle pagine dei libri sfogliati dalle mani di qualcuno nell’aula, il respiro pesante e affannoso del docente. Poi si sono aggiunte le immagini: un corpo di uomo seduto goffamente su una sedia e immerso in una parete bianca; mani gonfie che sfogliano un libro; occhi stanchi e fissi sulle mie parole senza alcuna indulgenza. I suoi occhiali. La cravatta scura immersa nella camicia. La gola scura, rosso marcio. Il suo odore di carne mattata. La sua gola debordante, sulle spalle e sul petto. La gola ovunque. La testa pelata e i suoi occhi cinici e noncuranti, la bocca sdentata. Gli occhi pieni di lacrime. Le mie. Le mie, di chi? Io in tutta questa gola, dov’ero?

Non ho più potuto distinguere tutto il resto da me.

Poi una voce - Signorina, ritorni al prossimo appello... e molto più preparata!

Quel tutto estraneo mi ha rigettata fuori. Fuori anche da me.

Smarrita inspiro profondamente, cerco di liberare la mente, poi chiudo gli occhi.

L’ululato sguaiato di un cane mi scuote e mi riporta in me. Sento il fruscio del vento tra l’erba secca. Il vento la scuote tutta e fa oscillare gli steli. Mi esplode dentro l’immagine dei fiori mossi violati. Vacillo e sento di essere sul punto di soccombere sotto alcuni pensieri. Si apre un baratro...fatto di pensieri, immagini e suoni.

Una tempesta di rumori. Il mio cuore: che frastuono! Il dolore cresce e non è un dolore solo dell’anima, no, è il mio corpo che soffre. Brucia tutto. Mi fa male il cuore. Mi brucia la pelle. Avverto spasmi lancinanti ovunque. Mi fa male lo stomaco, in un conato di vomito. Ho la testa pullulante di rumore.

Lo assaporo tutto, questo dolore. Sa di amaro. L’amaro della coscienza che se n’è andata. L’amaro di percepire tanta estensione in sé e non riuscire a trovare un appiglio. E precipitare lontani persino da sé. L’amaro di avvertire tanta estensione anche nell’altro e di non riuscire a sovrapporsi ad essa. Quell’amaro dovuto alla perdita dell’Igor-coscienza.

L’amaro di disperazione e smarrimento. Lo smarrimento della dispersione e frattura di sé.

Brano tratto dal romanzo inedito

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne
di Maria Luigia Longo

venerdì 5 agosto 2011

7 giugno


Sono sul balcone, di spalle alla ringhiera.

Il cielo è coperto da grandi nuvole basse: la striscia di cielo limpido è quasi nulla. L’azzurrino del cielo che in alcuni punti si fa più scuro quasi grigio, nel quale sono immerse le nuvole dai contorni evanescenti illuminati dal sole, calamita la mia attenzione.

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne, ma alcuni raggi illuminano bassi, indorando l’estremità inferiore delle nubi. Nei vetri appare anche, sbiadita, la mia immagine e il mio sorriso mesto.

Sono immersa nel tramonto arancione. Lo vedo riflesso nel vetro.

Di colpo un pensiero: il tramonto è dietro di me!

E mi stupisco.

Mi giro: tutto il confuso di colori è ben distinto e molto più vivo di come lo vedevo prima. Vedo anche altri colori: il più bello è un viola perlato che invade sulla destra la sagoma ombrosa dei monti. E dall’altra parte le nuvole spumose sono invece di un grigio perla immobile e mi disarmano. Il centro invece è tinto di un rosa sfumato ad un accenno di grigio. E, sotto, l’erba è più vicina ed è mossa dal vento. Ne sento il fruscio. Mi stupisce ancora tanta poesia di colori tenui.

Prima, nel vetro, non la scorgevo. Ma io? Che colore ho? E se ci sono, dove? Dove sono in tutto questo splendore?

Frattanto il tramonto si è tinto di buio e anche le mie sensazioni trascolorano pian piano e si dissolvono. Restano solo i ricordi, legati ai tramonti. Quanti ne ho vissuti! Quanti hanno, mio malgrado, vissuto me! L’ultimo qualche mese fa, con Igor o, meglio, senza di lui: accanto a lui senza di sé.

Era sabato pomeriggio. Io e Igor non eravamo più una coppia: c’ero io, i miei frammenti, i miei atti mancati, le mie fisime e c’era lui, i suoi frammenti, i suoi atti mancati, le sue fisime e c’erano i nostri dolori. E c’era sempre molto altro ancora oltre a noi due. Quel sabato andai molto presto nel suo regno fatto di ansia e di atmosfere inquiete. E a volte di dolcezza. E qualche volta di rabbia (adesso so che quando facevamo l’amore, lo facevamo per rabbia: aspettavamo che si accumulasse e che esplodesse furiosa in un orgasmo nichilista).

Faceva molto caldo. Io ero molto lontana da me e facevo di tutto per rimanerlo. La mattinata e tutto il suo torpore mi erano scivolati addosso sordamente. Igor era solo in casa e stava sul balcone a crogiolarsi al sole immerso nella lettura di un poeta: il solito Whitman. Alzò appena gli occhi dal libro quando arrivai e non rispose al mio saluto. Questo mi ferì e mi fece capire che avremmo forse litigato. Mi sedetti di fronte a lui. Aveva un bel corpo. Avrei voluto che si fosse alzato e mi avesse lasciata cadere nelle sue braccia. Lievemente.

Io non avevo la forza di toccarlo.

Alzò per un attimo gli occhi dal libro e mi lanciò uno sguardo duro e a me parve carico di rancore. Mi ferì. Rancore per cosa?

Leggeva ripetendo a voce bassa i versi whitmaniani. Aveva il labbro superiore leggermente carnoso e dalla linea irregolare. Mi ignorava. Io sentivo il bisogno di piangere, volevo solo amarlo lì e subito e invece...

Devo sbrigarmi se voglio arrivare in tempo.- disse di colpo correndo in casa.

Dove vuoi andare?, non capivo quello che faceva.

Ma lui non mi ascoltava nemmeno.

Dove stai andando?- gridai, afferrandolo per un braccio.

Lui si bloccò, come stupito; sembrava sul punto di dirmi qualcosa ma non riusciva a trovare le parole, non riusciva ad articolarle. Poi, dopo quell’esitazione, mi guardò smarrito e mi urlò che non dovevo toccarlo.

Non mi devi toccare! Te ne devi andare! Vattene via!

Rimasi scioccata e non riuscii a ritirare la mia mano che giaceva abbandonata e smorta. Restammo così per qualche istante. Avrei voluto non reagire e invece urlai anch’io, anch’io smarrita, anch’io violenta.

Tu sei pazzo!

Ancora una volta parole sbagliate e pesanti. Ancora una volta lo vidi perso in quelle mie parole, dietro ad esse e vidi me rincorrere entrambi: le parole avanti, veloci, Igor dietro, sgomento e poi io, sbagliata più delle mie parole.

Lo gridai ancora e più forte. Non mi controllavo più. Né lui controllava se stesso: mi allontanò da sé con uno strattone, andò verso la porta, afferrò la maniglia, esitò, si voltò a guardarmi e correndomi incontro mi abbracciò forte, tanto da farmi male. Mi baciò forte, anch’io lo baciai e poi mi disse lievemente Te ne devi andare! E più me lo ripeteva e più mi baciava e più io lo accarezzavo. Mi aggrappai a lui con tutte le forze.

Tutto fu violento e disperato, anche il distacco: fu come perdere un arto: sentii la carne lacerarsi e rimanere vuota di sé.

Non voglio perdere il tramonto, è quasi ora. -risoluto.

Vengo con te, dissi.

Non si oppose, ma sapevo che il silenzio di Igor non era mai stato assenso. Andai con lui, verso il mare, ma fu come perderlo una seconda volta: mi stava accanto ma era lontanissimo. Come può creare il gelo dentro di sé e intorno in modo tanto definitivo da trasmetterlo anche a me e, allo stesso tempo, renderlo inaccessibile? Come ci riusciva? Gli stavo accanto ma non gli stavo dentro e non potevo più afferrarlo, né toccarlo e neppure riuscire a vederlo.

Tornai a casa senza di lui.

Il giorno dopo mi concesse un’ultima carezza che a me suonò come uno schiaffo: alcuni versi di Whitman:

Addio, mia fantasia- ( avevo qualcosa da dire,

ma non è ancora il momento- il meglio che chiunque

debba dire

è quando è tempo e luogo- e quanto al significato

mi tengo il mio fino alla fine).

Igor.


Vorrei vederlo, ora. Per sentirlo parlare, per percorrere ancora una volta la linea delle sue labbra, il suono della sua lingua...

Ma forse non è ancora né tempo né luogo.

Camminare a quest’ora per strada, sotto il tramonto che piano piano si stempera, è inebriante e mi regala un certo senso di leggerezza. E vorrei dirlo a Igor.

Ho ancora le chiavi di casa sua e apro. Le finestre sono spalancate e le stanze sono invase da decine di mosche che volano freneticamente in circolo dappertutto. Lui se ne sta perso dietro ad un videogiochi di suoni e di colori. Forse è lì da diverse ore. La stanza è completamente buia.

È questo il tempo e il luogo? È adesso?- chiesi a mezza voce, avvicinandomi a lui. E’ passato molto tempo e forse non ricorda nulla. Aggrotta le sopracciglia e tace. Poi si volta con sguardo interrogativo.

Prendo dal comodino il libro di Whitman, sicura di trovarlo lì, al suo posto. Rileggo i versi. Lui va a sedersi sul letto.

Mi chiede di leggerli ancora, chiudendo gli occhi.

Lo faccio questa volta con molta più enfasi, incoraggiata dall’atmosfera patetica che si è creata. E dopo si crea un lungo silenzio.

No, non è ancora questo il tempo – dice scuotendo leggermente la testa - Non è ancora questo il luogo. Perché non ho proprio niente da dire. Cosa potrei dirti con questa nausea?

Seduta accanto a lui - Anch'io sento la stessa sensazione e spesso il buio della mente è così diffuso che vorrei davvero chiudere con me stessa, per non essere costretta a doverlo anche soltanto avvertire, dico

Non devi volerlo, è già successo: abbiamo già chiuso con noi stessi. E già da molto tempo.

Esausta affondo la testa nel cuscino e lì rimango.

D’un colpo, poi, avvicina la fronte al mio viso e prende con essa ad accarezzarmi la guancia, leggero, tenero… scivola così lungo il mio collo, la gola, il petto, il ventre e lì si trattiene.

Poi bruscamente torna al suo gioco. Smarrito in sé.

Non era né il tempo né il luogo e non c’era proprio nient’altro da dire.

Ciao.

Se n’era andato.

Brano tratto dal romanzo inedito

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne
di Maria Luigia Longo

giovedì 4 agosto 2011

6 giugno


Ora scrivo con una certa regolarità.

Frequento assiduamente il mio diario. Me stessa.

Prima la scrittura era lenta e per nulla consolatoria, adesso è molto più scorrevole seppur ancora non del tutto illuminante, anzi, spesso è crudelmente disvelatrice di atmosfere cupe: la mia creatura è ingenerosa e ingrata. E’ traviata dal ruolo che ingiustamente le attribuisco: quello dello psicologo.

Ora non sono più certa che la funzione principale della scrittura sia quella essenzialmente catartica. E poi vecchie letture mi hanno insegnato che l’autoanalisi è pericolosa, ma non posso fare altrimenti, anche perché io non voglio alcun dottor S. pronto a cercare di districarsi in tanta vita e non mi piacerebbe l’idea di essere giudicata da un qualunque dottore, anche perché spesso sono stata brutalmente tacciata di essere pazza o strana, ma si sa, gli esseri senz’anima non sopportano chi ne ha troppa.

E intanto scrivo.

Chissà, poi, a cosa mi servirà questo mio scrivere e questo leggermi e rileggermi e rimuginare sempre e continuamente. Ogni esperienza la vivo e rivivo, la smonto e rimonto fino all’infinito. È una sorta di masturbazione mentale.

Ma non sono disposta a credermi pazza. So di non esserlo.

Brano tratto dal romanzo inedito

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne
di Maria Luigia Longo


mercoledì 3 agosto 2011

4 giugno e 5 giugno


4 giugno


Comunque la compenetrazione ci fu. E di questo ero e sono consapevole. Ma allora perché c'è stato bisogno di usare le parole? E perché non ho trovato quelle giuste?

La verità è che non esistono parole giuste. Non dovrebbero esistere parole.


5 giugno


Stamattina mi è capitata una cosa ben strana.

Non avevo alcun motivo per alzarmi dal letto e non riuscivo a trovarne. Il mio estremo stato di abbandono mi obbligava a non volerne. Perché avrei dovuto alzarmi e vivere? Perché avrei dovuto guardare me e gli altri con occhi meno stanchi? Perché affrontare la fatica di trascinare la mia vecchia carcassa tra i risolini delle bocche altrui e i miei soliti pensieri autolesionistici? E per chi? Non avevo voglia di scuotermi né di prendermi cura di qualcuno, e, anzi, la presenza anche lieve dell’altro mi avrebbe fatto troppo male. E così sono rimasta a letto fino a tardi, spossata.

Poi però non ho potuto fare a meno di costruire immagini e di posare la mente, seppur ancora molto frenetica, su qualcuna di esse. Ho cercato di non pensare, ma le immagini nascevano sempre più numerose e affollavano saltellanti la scena. Al limite di una crisi di nervi ho pensato che non c’era niente di meglio per non pensare dello sforzo fisico: dovevo fare footing! Nel giro di dieci minuti ero già in tuta e fuori di casa. Ho fatto un giro nel parco. Ho ricominciato a pensare e la paura mi ha dato la frenesia di cercare un rimedio per non farlo, quindi sono andata da Igor.

Ho preso un autobus al volo: rumorosissimo e fastidiosamente arancione.

Ricordo bene la prima volta che vidi Igor. Eravamo all’uscita di un cinema. Il film? Underground. Lui era in compagnia di alcuni amici. Seduto stretto stretto su un gradino: viso da intellettuale depresso e disilluso. Era quasi inerte. La nostra frequentazione assidua nacque probabilmente da un malinteso creato da alcuni miei movimenti: lui se ne stava sempre in disparte dalla conversazione ma attento ad ogni mia parola o gesto. Aveva la luce di un lampione alle spalle, in modo che ero accecata e non riuscivo a vederlo in viso. Ad un certo punto, lo ricordo bene, mi avvicinai a lui e guardandolo negli occhi gli dissi sorridendo che non riuscivo a vederlo perché accecata. Non riesco a vederti…oplà! e mi avvicinai. Lui sobbalzò, probabilmente credendo che mi piacesse o che volessi baciarlo o altro. E a me probabilmente piacque che lui avesse potuto pensarlo. Ecco, fu soltanto questo l’equivoco che ci avvinse, ma da allora ci vedemmo ogni giorno, cercando di penetrarci.

Pensare ad Igor mi ha regalato un’insolita dolce parvenza di serenità.

Quando sono arrivata a casa sua però l’ho trovato sconvolto. Anche lui. Stava sul letto e guardava il soffitto. Estremamente assente a se stesso.

Non sapevo come comportarmi né cosa dire. Proprio io, che stavo peggio di lui. Io non sapevo cosa dire e lui non aveva voglia di fare niente. C’era ben poco da fare nella penombra di quella stanza. Mi sono seduta accanto a lui, al bordo del letto e, prendendogli la mano, l’ho stretta forte, per fargli sentire la mia presenza senza dover parlare. La sua mano stavolta mi sembrava non solo piccola, ma orrendamente fredda e abbandonata nella mia. Siamo stati per un po’ così, in quella posizione e ciascuno con il proprio stato d’animo.

Poi ho preso ad accarezzargli la nuca, coperta da una cascata di riccioli neri arruffati a ciocche. Lo accarezzavo con tutta la dolcezza che sono riuscita a recuperare in me e un po’ ho dovuto anche inventarmela. I suoi occhi erano sempre fissi sulla parete. La sua mano invece, col passare dei minuti, cominciava ad essere un po’ sudata e comparata dalla mia mente ad un lombrico. Ho tentato di smuoverlo lasciandola cadere sul letto. Aspettavo una sua reazione. È arrivata: con un gesto felino, a dispetto del suo essere inerte, mi ha riafferrato la mano e se l’è tenuta premuta sul petto. Sentivo il suo cuore battere veloce. Adesso i suoi occhi erano su di me, completamente. Occhi che palesemente chiedevano aiuto. Erano tenerissimi e sperduti. Il cuore pulsava e lui stringeva forte la mano, e questo faceva battere veloce anche il mio. Mi sono chinata su di lui sfiorandogli la fronte con un bacio, a labbra socchiuse.

Stammi vicino con un filo di voce.

L’ho sfiorato ancora, ma stavolta con più pressione e sulla bocca.

Non te ne andare dice ancora, in un fremito. Solleva lento il suo corpo e mi posa la testa (tenuta bassa durante tutto il movimento) sulle ginocchia e vuole che gliel’accarezzi. Lo faccio con più trasporto di prima e gliela sollevo e la stringo forte al petto.

Riesco a sentire il cuore mi dice.

Stiamo così per un tempo bellissimo e quasi illimitato, riempito solo dal nostro essere finalmente insieme, naturalmente. Credo che lui abbia anche pianto. Abbracciata ad Igor, la mia mente aveva abbandonato la frenesia e si concentrava ora solo su quell’istante. La leggera percezione di me e dell’altro era così gradevole che tutti i miei tremiti si sono dileguati e io ho abbracciato ancora più forte quel corpo smorto che per me costituiva paradossalmente la vita.

Non riesco più a sopravvivermi - dice squarciando il silenzio.

Sono disgustato- continua in tono conclusivo.

Da cosa? - chiedo, anche se avevo già capito.

Da tutto. Dalla vita, ma non dalla vita in generale o in astratto. No! Sono disgustato da tutto. Anche dal sole la mattina appena sveglio: mi lascia sulla pelle una sensazione di bruciore. Mi disgustano gli oggetti che guardo...

Come “gli oggetti che guardi”? ripetei.

Non riesco a fissarli a lungo senza esserne risucchiato e disgustato. E il loro colore, la forma e tutto ciò che è loro mi investe e mi travolge, non dandomi pace. E ne sento la pesantezza ovunque. Capisci? Sul mio corpo, addirittura nella carne.

, io.

E non è solo la presenza degli oggetti che mi disgusta, ma anche quella delle persone: non riesco a seguirle mentre parlano, mi allontano non so dove e ritorno senza neanche accorgermi di cosa ho pensato o del perché me ne sono andato. La mia mente è un vortice disgustato di sé. E mi spaventa il contatto fisico (non capisco come con te possa essere diverso, proprio adesso che sono all'apice della mia nausea), mi ferisce e mi lascia disseminato in un non so che di impercettibile. Come faccio a continuare così?

La domanda non ha trovato risposta. Non da me.

Adesso piangeva e anche quelle lacrime lo immettevano violentemente nel vortice.

Aiutami.

La richiesta di Igor giunse come una valanga.

Lui era completamente accucciato su di me, con un movimento leggero quasi impercettibile gli sfioravo appena la nuca. Il contatto dei suoi capelli mi penetrava la mano e sentivo un brivido corrermi lungo la schiena e molto più giù. La mano è scesa fino al collo: caldissimo. Avevo paura di fargli male e lo accarezzavo toccandolo appena. I polpastrelli creavano ambigue geometrie sulla sua pelle ormai pulsante di eccitazione, e pulsavano anch’essi. Era completamente abbandonato in me e muoveva il suo corpo (e a me sembrava anche la pelle) in modo da assecondare il mio tocco. La mia mano continuava a scendere (l’altra era immobile sulla mia gamba sinistra e partecipava per emanazione all’orgasmo dell’altra), ed è giunta alla schiena. Lì il calore morbido aumentava a mano a mano che scendevo e la percorrevo tutta.

Frattanto gli baciavo il capo. Il solo contatto dei polpastrelli non mi è bastato più e ho preso ad amarlo con tutto il palmo e con una pressione più profonda e più veloce. Poi l’ho baciato a labbra dischiuse sotto l’orecchio, poi proprio l’orecchio, il lobo cartilaginoso e quasi pendente e poi ancora il collo. Ripetutamente il collo.

Come penetrargli l’anima senza ferirlo? Come entrargli dentro senza dolore?

I sussulti si facevano sempre più forti e immaginai che la situazione stava per precipitare, e desideravo che esplodesse. Ormai lui non piangeva più e questo mi diede maggiore irruenza: cambiammo velocemente posizione: lui si è disteso completamente sul letto, supino, e io, seduta sulle sue gambe e sbottonatagli la camicia, ho incontrato il suo petto: ampio, liscio e ansante. Ho sfiorato i capezzoli, riempito di baci tutto il torace fino all’ombelico e più giù…

Era completamente abbandonato ai miei slanci. Le mie mani lo visitavano ovunque. Le sue? Abbandonate da qualche parte. Ho sentito il bisogno impellente di lasciare che altri miei strati di pelle godessero di quella pace e così mi sono tolta la maglia e ho appoggiato il mio petto sul suo.

Per un tempo lunghissimo ci siamo amati così.

Poi lui, con un sussulto più forte degli altri, mi ha preso i fianchi e ha incominciato ad accarezzarmi la schiena e a baciarmi le spalle e tutto il resto. Ho vacillato.

Il suo tocco era leggero e probabilmente dolce, ma mi è sembrato violentissimo. Mi ha trapassato la carne. Ho fermato di colpo ogni più piccolo movimento.

Dopo è stato tutto più veloce e confuso ed io ho perso lucidità: mi sbottona i jeans, mi viene sopra, mi sussurra ti amo! all’orecchio.

Da quell’istante qualcosa in me si è rotto, allontanato: ero sempre lì, abbracciata ad Igor, ma distante. Ho sentito compiersi uno sdoppiamento, una rottura in due parti: una, come uscita fuori da me, guardava compiere i miei gesti, piuttosto disgustata. Il disgusto lo provava lei! non io. La mia parte distaccata diventò cinica e sarcastica nei miei confronti e di quell’istante. E soprattutto nei confronti di quel ti amo! così superfluo che ha rotto l’unità di noi due sigillata dal silenzio. Ecco forse il disgusto di cui mi aveva parlato poco prima lo stesso Igor; ero rimasta paralizzata dalle sue mani e dalla sua voce e mi accorgevo solo dell’assenza di me. Che necessità c’era stata di rompere il silenzio! Che necessità c’era stata di dirlo! Ma non era solo per questo, allora cos’era? Cosa era successo? E adesso cosa so di me?

Io ero sempre sdoppiata e lei sempre più cinica e beffarda. Io inerte e lei disgustata. Allora ho cercato di ricomporre l’unità e…abbiamo fatto l’amore. Ma nessuna delle mie parti partecipava con abbandono. Nessuna. L'ho odiato. E ho odiato me o l'altra parte di me. Quando abbiamo finito né io né Igor abbiamo parlato, né ci siamo guardati. Io mi sono rivestita in fretta e sono corsa via, in frantumi.

Mi stavo dileguando in una miriade di frammenti che viaggiavano ovunque.

Dove poter rintracciarmi...in tanto dolore? In quale deserto poter ritrovare la calma? Perché tanto smarrimento?

Brano tratto dal romanzo inedito

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne
di Maria Luigia Longo

lunedì 1 agosto 2011

Nel mezzo della notte



È molto tardi e la piazza si è da poco svuotata.

Adesso il silenzio brulica da ogni parte. Prima c’era gente ovunque, nell’estenuante tentativo di stringere relazioni per concludere al meglio la serata. Li ho guardati. Tutta la sera. In silenzio in mezzo alle loro grottesche rappresentazioni dal vivo di scene di film neanche troppo intelligenti. Finalmente sola. Sola, cioè, rispetto agli altri, ma piena di me: in compagnia di tutti i miei frammenti. Mi sto sentendo. Ci sono. E mi sto dipanando, ho voglia di uscire. Qui, a compattarmi. Il ricordo è così vivo e presente da sentirlo quasi vivere di vita propria.

Lo sento: si sta srotolando e mi dilato anch’io. Cosa vedo?

Un cortile non molto ampio, elevato dalla strada, una ringhiera verde che si affaccia su di essa, panchine di legno, un’aiuola, una fontana, il porticato di un teatro e una serie di alberelli da poco piantati. E forse un gruppo di bambini che gioca. Era il cortile su cui dava l’entrata del teatro. C’era un’altra cosa nel cortile: l’umidità. Allora non ne avevo coscienza, ma adesso sarei pronta a giurare che ci fosse umidità ovunque. Sono ora più sicura della presenza dell’aria umida che di quella dei bambini che forse giocavano. Erano mesi che non ci incontravamo più, Igor e io.

Troppe spiegazioni da dare e da ricevere, mi disse per giustificare il suo abbandono.

Forse era soltanto questa la spiegazione, forse c’era dell’altro. Non so. Era una serata strana per me. Piangevo, lo ricordo bene. Forse sto piangendo anche adesso e dentro qualcosa sanguinava. Un no! categorico e immotivato, giunto da lui in un momento di estrema debolezza e confusione (mie), mi aveva ferita. Quel no! era arrivato dopo una lunga serie di altri no!, e forse avrei dovuto quantomeno prevederlo, ma non volevo credere che potesse arrivare così definitivo e proprio da lui. Non potevo più sopportare. E sono esplosa: ho rifatto di corsa le scale e davanti a lui (che ormai – triste destino per gli altri da me – era il mio specchio) ho emesso tutto il mio smarrimento, tuonando un perché?! denso.

Ho addosso, nelle ossa, la fatica di chi piange da giorni e la spossatezza di chi ha appena fatto l’amore. Ripetutamente e con totale abbandono.

Al mio perché lui sorrideva. Perché sorrideva?

Esigevo, a questo punto, una risposta.

Arrivò: due parole per dire che le parole erano di troppo e per capire che non occorrevano. E poi il silenzio, pieno. Ecco: quello sguardo mi invadeva di nuovo. Stavolta, però, più dolce e pieno di meraviglia. E vasto e immenso e caldo. Adesso ero io che sorridevo di meraviglia. Sentivo che Igor stava cercando di prendere quella coperta per darmi calore.

E io? Piangevo ancora? Non più.

Il suo sguardo era così aperto e vasto da farmi sentire non solo di averlo dentro, ma paradossalmente di essergli dentro anch’io. Completamente. Forse non so spiegarlo, ma mi vedevo proprio saltellare e rotolare dentro quello sguardo, che paradossalmente era anche il mio. All’inizio tale sensazione di vastità mi disorientava e mi sentivo persa in lui. Imprigionata, così da non riuscire addirittura a ritornare in me. Non so perché accadesse, ma era meraviglioso. E mi sentivo esistere. Come poche altre volte. Come ora. E non immaginavo ancora che di lì a poco avrei sentito il mare.

Restammo seduti a parlare su uno scalino del teatro. Parlammo molto.

Di noi, anche.

Poi si allontanò per un attimo (non ricordo a fare cosa, forse a telefonare…non so). Rimasi da sola nel cortile per un po’ ed ebbi modo di ritornare in me. Potei non solo guardarmi attorno, ma soprattutto dentro. Nel cortile non c’era nessuno e in strada sembrava non passasse alcun veicolo e io stavolta ero davvero da sola: non sentivo alcun vuoto urlare e, anzi, ero avvolta e pregna di una delicata sensazione di tepore, Ecco, era una dolce sensazione di sollievo. Stavo bene ed ero ignara del fatto che di lì a poco sarei stata anche meglio. Fu quando tornammo a casa. Nella sua Dyane verde. Poche parole circondate e sostenute da silenzi densi e molto loquaci. Come sempre con lui.

Sto male, lo sai?- disse.

Lo so - risposi.

Guidava veloce, come se stesse rincorrendo qualcuno.

Allora perché te ne vai? Perché ti allontani?, chiese.

Non è vero! Sono qua!-. Non aggiunsi nient’altro, tanto mi pareva certa la mia posizione.

Adesso sei qua, ma fra un attimo sarai già lontana anni luce. Da me, da tutti. È sempre stato così, fin dall’inizio. Non ho mai visto una persona tanto piena di sé come te. Mai.- Fu lapidario. Altro pugno allo stomaco. Adesso guidava praticamente a centro strada.

Non è vero, non sono così- riuscii a rispondere solo questo. Ferita. Il mio specchio mi raffigurava come non avevo mai pensato di essere.

E’ così: te ne vai addirittura mentre mi vieni incontro- concluse.

Ripercorsi velocemente alcuni eventi passati e mi rividi presente ma inerte, paralizzata da alcune rivelazioni e quindi per gli altri non presente. Fuggivo da me e certamente dagli altri ogni volta che scoprivo di precipitare. E questo succedeva soprattutto con lui che era la persona che avevo interiorizzato di più. Rimasi inerme anche davanti a questa nuova scoperta. E stavo già incominciando a vagare chissà dove (naturalmente senza coscienza) e chissà dove sarei arrivata se lui non mi avesse riportata in me. D’improvviso, infatti, la sua mano destra si staccò dal volante e il braccio si distese fino a me, rimanendo sospeso in aria, a un palmo da me. Ci volle un po’ di tempo perché io riuscissi a percepire il suo gesto: ero già molto lontana.

Mi disse anche qualcosa che ora non capii: non c’ero già più, ero assente a me stessa e non sapevo dove recuperarmi e non avrei di certo potuto darmi a lui senza prima essere tutta me. Non potevo muovermi.

Che dolore fu per me vedere quella mano tesa, pronta per essere stretta e non poterla afferrare! Eppure ne avevo bisogno anch’io. Vidi sul suo volto lo sconcerto, che divenne amarezza. Stava ritirando a sé la mano, quando qualcosa in me si mosse: uno slancio: gli presi la mano con forza e quella mano, pronta per essere afferrata, fu in realtà un appiglio per me. Fui invasa da una insolita dolcezza che mi fece vacillare. Mi sentii fremere. Appagata. Mi sentii, fortemente, in me! Il mio appiglio, delicato come delicato è adesso il silenzio di questa piazza. Pieno: lo sento anche adesso.

Mi emozionò tantissimo l’esplosione di gioia incontenibile del suo viso quando gli strinsi la mano. Fu una deflagrazione che coinvolse anche me. Passarono per i suoi occhi prima lo sconcerto, poi l’amarezza e poi la gioia. Li vissi tutti. E li rivivo anche adesso, nella carne, qui…Tornai a casa esausta ma felice di quello che avevo vissuto. Ero, però, ancora inconsapevole. Allora era ancora troppo presto e non avrei potuto immaginare le proporzioni del mio distacco.

Ora lo vedo: lo sdoppiamento di me da me stessa.

La volta seguente infatti fu ancora più profondo e chiaro il disvelamento di me.

Era una notte piena di gente. Troppe persone più o meno importanti (per la verità, la maggior parte di esse non mi apparteneva neppure); troppe persone, quindi, più o meno sincere (probabilmente lo erano, ma poiché non mi appartenevano, di loro non mi riguardava né la verità, né la non-verità). E in me troppi frammenti in collisione fra loro: ero, cioè, in un particolare stato di mente: quasi sconvolta. Il perché non lo ricordo. Ricordo solo che io ero calamitata soltanto da Igor.

L’avevo ritrovato. O così credevo. Non l’avevo dimenticato, non era scivolato nel passato; l’avevo soltanto protetto in me, ovattato, per non permettere né a lui (che se n’era andato) né al bisogno di averlo dentro di logorarlo in me. L’avevo protetto perfino da me. E adesso era lì davanti a me: il tempo del mio rapporto con Igor era tutto davanti ai miei occhi, srotolato nelle mie mani, e potevo manipolarlo io stessa e giocarci. Tuttavia quella notte la mia gioia era così densa da rasentare addirittura la disperazione di non poterla più contenere, perché troppo grande e il timore che si disperdesse in qualche luogo lontano da me o, peggio, in fondo a me acuiva enormemente il dolore che si manifestava, ricordo, con sensazioni dilatate e pulsanti: ero, insomma, in preda ai miei istanti. Completamente.

La coscienza era così immensa da sentirsi persa in sé e circoscritta in me, troppo piccola e impotente. Ero disorientata, ma felice forse. Per un attimo il ricordo mi ha resa felice, credo, in una maniera che a ripensarci adesso mi fa tenerezza: quasi infantile: euforica e incontenibile. Appesantita certo dalla paura di perderne coscienza.

Ero, dunque, al centro di un piazza piena di gente che assisteva ad un concerto di buona musica locale. La musica mi cullava dolcemente nelle mie sensazioni. E mi inebriava, isolandomi dalle mille voci del mondo che mi sfioravano appena, scivolando via da me senza ferirmi. Senza sporcarmi.

Dopo il concerto tutti se ne vanno, la musica si disperde chissà dove e la piazza si svuota in un attimo. Mi guardo attorno e noto che Igor non c’è. Sono rimasta sola. Questo mi irritò alquanto, lo ricordo bene.

Ero quasi stremata dai miei istanti e, per questo, piansi. Non posso fare a meno di piangere, quando sto così. Dicono che il pianto sia una forma di reazione ad un problema. Può darsi sia vero. L’emozione si trasforma sempre il lacrime quando è troppo densa se vuol essere liberatoria. E lo fu.

Volevo parlare con Igor, anzi, volevo che lui parlasse con me. Avevo bisogno di ascoltarlo. Prima però dovevo compattarmi.

Così feci un lungo giro nei dintorni della piazza. Percorsi velocemente la strada dello squallido passeggio che, a mano a mano che ci si allontanava dalla piazza, diventava meno popolosa. Correvo quasi, per non rischiare di incontrare qualcuno che mi conosceva o che pretendeva di farlo proprio quella sera. Volevo ritrovare atteggiamenti normali e ogni tanto mi fermavo davanti alle vetrine, ma i miei sguardi erano sempre molto veloci e superficiali e in realtà non vedevo niente. Scesi per delle scalette e in un vicolo non molto illuminato che portava al parco, smisi di piangere le mie lacrime in silenzio. Stetti così per un po’, poi tornai nella piazza ora completamente vuota. Cercai Igor. Ora volevo solo tornare a casa. Non avevo più voglia di stare con lui, né di parlare. Seppi che anche lui mi aveva cercata. Lo trovai nel solito pub. Ubriaco a far mostra di sé.

Mi avevi mai visto così?- mi chiese, quasi come voce di coscienza fuori campo.

Rimasi muta a considerare velocemente la situazione e a cercare di decifrarla.

Guardami. Io sono così- disse ancora. Mi scagliò di nuovo nello sconcerto, mentre avevo la netta sensazione che si stesse allontanando di nuovo da se stesso. E da me. Si allontanava dai miei occhi, sempre troppo scrutatori, e dalla mia mente, sempre piena di domande. Era forse per questo che per mesi se n’era andato via da me? Per la mia curiosità di malata psicoanalista? O forse per non permettermi di vedere la sua tristezza. Aveva dunque vergogna dei miei occhi? Come se il suo dolore non fosse anche il mio! Mi vedeva, dunque, tanto diversa da sé? E incapace di guardarlo con occhi benevoli? Oppure voleva difendermi da tutto questo. O era lui che non voleva vedere e guardarsi.

Non volevo che se ne andasse via di nuovo. Questa volta non l’avrei permesso né a lui né a me stessa. Se l’avessi lasciato allontanarsi e perdersi, non me lo sarei mai perdonato.

Bevvi anch’io qualcosa di fortemente alcolico e poi Andiamo a casa? dissi, accarezzandogli la nuca. Funzionò. Dopo era strano, come in uno stato di sospensione e di attesa.

Continuava a chiedermi cosa riuscivo a vedere. Di lui, certo. In macchina, coi finestrini aperti. Il vento mi scompigliava i capelli, dandomi brividi fulminei lungo tutto il corpo. Ero già in frantumi. E non potevo rispondergli. Non ci riuscivo. Occorreva troppa volontà e coscienza per compattarmi e riunire i frammenti dispersi chissà dove e la mia mente era una tabula rasa frammentata da pensieri pesanti in collisione. Flash. Allucinazioni.

E incominciavo a vagare, tremante. Non volevo più pensare e non volevo più sforzarmi di farlo né guardare qualcosa di cui non riuscivo neanche a vedere i contorni. Non volevo avere più coscienza della mia perenne non coscienza. Riuscivo solo a ripensare al concerto, alla piazza deserta, all’umidità del cortile davanti al teatro, quella sera. Tutto in uno zapping affannoso ed estenuante: la strada, le luci, il cielo coperto di nuvole…i frammenti.

Igor insisteva. La notte stava dileguandosi. E forse anch’io, se non ci fosse stato lui. Capì che avevo bisogno di un input per abbandonarmi a leggerlo, per ritrovarmi e sovrappormi a lui e me lo diede: mi prese la mano: ritornai in me.

Ecco: era lui: la persona che era capace di darmi sollievo.

Ma adesso toccava a me dirgli che ce l’aveva questa benedetta coscienza e che doveva soltanto lottare per recuperarla in sé e che forse i frammenti potevano essere compattati. E che non doveva necessariamente ogni volta obliarsi e disperdersi. Mi sono sentita…fisicamente! Ero ritornata, tutta. Compatta. Unita in un unico ente: l’io, per intero. C’ero e c’era anche lui. C’eravamo incontrati per caso, avevamo avuto percorsi diversi, spesso opposti, esperienze diverse, noi stessi eravamo diversi, ma adesso eravamo lì. Uniti. Ecco: la coperta.

Che meraviglia.

Non ricordo di essere mai stata tanto in me come in quel momento. Potevo dire sono!, senza dover aggiungere per forza attributi per definirmi; e senza dover usare parole per mostrarmi all’altro o flash per avvicinarmi a me stessa. E non dovevo più neanche pensare prima e per forza a quello che non ero per capire quello che ero. Non più. Capisco solo ora che in quell’istante Igor è diventato una parte di me e solo ora capisco in che misura. Il mio specchio. Forse la voce della coscienza. Forse la coscienza stessa.

Come mi vedi? chiese.

Cosa vedi? insistette.

Mi gettò nel panico: ero tutta me, ma dovevo esternare i miei pensieri.

Ti vedo aperto. Più del solito- risposi.

Sì, lo sono... parlami. Come mi vedi?,lui

Voglio incontrare la vera parte di te. Non ti nascondere!- dissi con un po’ di fatica e, credo, di rossore sulle guance.

Non puoi pretendere di incontrarmi in mezzo alla gente. Non puoi pretendere di incontrarmi quando nemmeno io lo faccio più. E poi devi smetterla di pretendere di andare così in fondo. Proprio tu, sempre così lontana e schiva. Costringi gli altri a sputtanarsi e tu ti ostini a rimanere sempre trincerata nei tuoi silenzi-disse.

Non è vero- risposi timidamente.

Dove sei quando ti allontani? Dove te ne vai?- Non seppi rispondere più nulla, ferita e spiazzata dal senso pesantissimo di qualcosa che non conoscevo e che forse non avrei mai neppure colto.

Mi strinse più forte la mano e mi chiese di aiutarlo a ritrovarsi. Ricambiai la stretta ma non seppi fare null’altro. Avevo sbagliato parole: l’ennesimo mio atto mancato! Avrei voluto usarne altre e in un altro modo, ma ne ero stata incapace. Avevo perso l’essenza stessa del mio sentire. Si era sciupato nell’arrivare alla lingua. Mi rendo conto, adesso, che in quegl’attimi Igor regalò il disvelamento di me a me stessa; prima non lo sospettavo neanche. Io gli ho negato invece la mia impressione di quell’attimo, perché distratta dai miei frammenti.

Gli ho dato il senso di un’impotenza definitiva, annegando il suo bisogno d’aiuto nella rassegnata provvisorietà di cui anch’io sono vittima.

E forse l’ho tradito.

Chissà cosa sarebbe cambiato se gli avessi parlato con consapevolezza e focalizzando l’attenzione solo su di lui. Ma la mia mente è labile e non riesce a fermarsi per molto tempo su di un solo punto. Fa zapping tra passato e presente per non vedere la sua inconsistenza e non accorgersi che sta precipitando nel non senso.

Questa è la verità. Ero solo stata messa di fronte alla mia non coscienza.

Brano tratto dal romanzo inedito

Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne
di Maria Luigia Longo