[...] E ti appropri di/un mondo che/nello scrutare sorpreso l'ombra/ha la sua strofa.// (da Paesaggi di tempo, pag. 24)
martedì 31 maggio 2011
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lunedì 30 maggio 2011
Per forza
A quel tempo avrei potuto entrare in macchina e partire per un lungo viaggio e invece mi ritrovavo sempre a percorrere i soliti brevi tragitti che mi portavano per le strade polverose della città. Vivevo allora in compagnia di Mattia, un uomo che avevo conosciuto casualmente tre anni prima al mercato grande. Strano incontro al banco del pane e strano anche Mattia, il genovese che mi raccontò la storia del galletto.
Era uno stimato insegnante di fisica all’università degli Studi della Basilicata, dove peraltro trascorreva la maggior parte del tempo. Perso tra i suoi numeri e le sue formule, trascurava piuttosto banalmente la realtà. E me. Ma a quel tempo a me andava bene così. Consideravo Mattia quasi un pezzo della nostra casa, quasi come il terrazzo da cui guardavo il mondo: la sera tornavo dentro i suoi confini e mi affacciavo ai miei pensieri.
Non l’avrei sostituito con nessun altro uomo, ma non gli avrei mai permesso di seguirmi nei vagabondaggi del mio spirito. Aveva imparato a conoscermi e a starmi accanto senza essere invadente. Ed io avevo imparato ad accettare con benevolenza il suo essere sistematico.
Ci amavamo, ciascuno a suo modo.
Le giornate a quel tempo passavano in fretta senza che io avessi neanche il tempo di notarne i mutamenti.
L’unica cosa che fissavo in me era il rumore strisciato della tenda di bambù sospinta ritmicamente dal vento. Quella estate fu molto calda e particolarmente ventosa, mi ricorda tanto quella di un viaggio fatto in Grecia qualche tempo prima.
Le serate si concludevano quasi sempre allo stesso modo: Mattia dentro, davanti al computer, ad elaborare dati oppure a guardare vecchi film ed io, seduta sulla sdraio in terrazzo, a guardare fuori, sorseggiando del vino. Nella sua fissità atemporale, la distesa dei Sassi , come due robuste braccia allargate in un pietroso abbraccio, mi aveva catturata fin dalla prima volta che avevo messo piede in quell’antica città: mistica e triviale allo stesso tempo. Lungo il crinale della murgia, mi sentivo come persa in qualche augusto angolo della storia dell’uomo, quella importante. E questo mi piaceva molto.
Sospesa a mezz’aria tra i pensieri e le antiche rocce, avvertivo il lento fluire del tempo come un privilegio di quella città cui non avrei più saputo fare a meno.
Di tanto in tanto, io sul terrazzo e lui davanti al computer, scambiavamo qualche considerazione, ci raccontavamo le nostre giornate. Il resto era silenzio.
E, in fondo, pace.
Passavo molto tempo per strada, fra la gente. Ero un’insegnante di scuola elementare senza figli e con una grande passione per i bambini, oltre che per i libri. Al mattino avevo preso l’abitudine di svegliarmi presto, anche d’estate, e fare colazione al bar sotto casa; sfogliando il giornale, approfittavo per chiacchierare con i soliti frequentatori del bar, alcuni dei quali forestieri come me. Avevo imparato ad apprezzare quella strana cadenza locale che all’inizio mi irritava. Era come se la lingua nel suo incedere, aspro e cantilenante insieme, seguisse perfettamente una linea sinuosa non molto dissimile dal profilo della murgia, incespicando in qualche consonante per inabissarsi nelle vocali e spegnersi lì. Imparai anche a parlare il dialetto.
Di mattina solevo camminare molto: dopo le chiacchiere al bar e quelle davanti all’edicola, abbandonavo volentieri le vie del centro per addentrarmi nei sentieri dei Sassi. Lì, in un cantuccio un po’ appartato, intervallavo le mie letture poetiche con riflessioni che, sotto il sole cocente di agosto, spingevo sino ad una sorta di balbettio intellettivo. Una certa poesia mi aveva regalato l’idea di una assoluta adesione della parola alle cose e con quell’idea vivevo, partecipando panicamente alla natura, che in quella regione d’Italia si manifesta con l’estro di un divenire imperituro.
Le mie giornate erano scandite sempre dalle stesse azioni: tornando a casa acquistavo il pane, andavo al mercato della frutta, mi fermavo a comprare del pesce che Mattia adorava e, una volta alla settimana, piante e fiori per quel terrazzo da cui guardavo il mondo.
Sul finire del giorno, nel mentre di qualche tramonto d’estate, rimanevo intrappolata nella visione delle rondini tutt’intorno in volo: sparpagliate a seguire velocissime traiettorie che ricalcavano nelle mia mente desideri mai rivelati. Sospinte da imprevedibili venticelli, seguivano le linee variopinte dei tramonti, ed io con loro. Su quel terrazzo. Da cui scrutavo il mondo.
Un giorno come tanti, semplice come tutti gli altri, tornando a casa fui sorpresa da una fatto che di per sé non aveva nulla di singolare ma che lì per lì mi risultò alquanto bizzarro. Vidi appoggiato al portale del Duomo un uomo elegantemente vestito con in mano un bel mazzo di fiori. Un bel mazzo di gerbere bianche. Quando ripassai di là, dopo la consueta camminata, quell’uomo era ancora lì, appoggiato allo stipite della porta maggiore. Richiamava il suo intreccio a canestro, pareva quasi una delle sue sculture ornamentali.
Un po’ defilata, dall’altra parte della piazza, restai a guardarlo per qualche minuto: rimaneva, tutto impettito come un uomo d’altri tempi, ad aspettare qualcuno, senza mostrare alcun segno di impazienza.
Il giorno seguente quell’uomo era ancora lì, nella stessa posizione e allo stesso modo del giorno prima e così anche il giorno dopo e quello successivo ancora. Indossava un abito di lino chiaro, con una camicia bianca e la cravatta arancione e vestì gli stessi abiti anche nei giorni seguenti, cambiando soltanto la cravatta prima arancione, poi azzurra, poi amaranto.
Aspettava qualcuno, senza tradire alcun segno di impazienza. Aspettava una donna che tuttavia non arrivò mai. [...]
Brano tratto da Per forza, Trilogia dell'incontro e altre storie
Menzione speciale al premio letterario Alla luce delle Mainarde 2005
domenica 29 maggio 2011
sabato 28 maggio 2011
Brunella all'ombra dei Sassi
Quieto frusciava il vento da oriente, cingendolo tutto.
Era un po’ agitato Ernesto al suo ingresso in città dopo più di trent’anni passati in giro per l’Europa a parlare lingue diverse che non erano la sua. Fortuna che un nome proprio è lo stesso in tutte le lingue!, pensava. E Matera era sempre Matera. Nei primi anni l’aveva quasi dimenticata, non ne parlava mai, diceva d’essere - genericamente – italiano, un italiano del sud, aggiungeva.
E ora la distesa dei Sassi si presentava a lui esattamente come la ricordava, proprio come l’aveva lasciata: tanti piccoli fori che occhieggiavano come a dargli il bentornato.
Dell’infanzia ricordava soprattutto le scorribande pomeridiane con gli amici fra le rocce del Caveoso, da dove più volte il suo sguardo si era perso a fissare il torrente Gravina, spingendosi fino al pendio opposto del canyon. E ricordava lo strofinio leggero del vento sui vestiti quando fra i numeri della campana saltellava inseguendo un sassolino; lo stesso vento che ora lì, sul belvedere di Piazza Vittorio Veneto, accartocciava i pensieri.
Stretta nel pugno, celata nella tasca dei pantaloni, aveva una fotografia in bianco e nero, un segreto che qualcuno aveva custodito per anni e che soltanto ora si era deciso a rivelare: Brunella seduta all’ombra dei Sassi.
L’aveva ricevuta per posta un giorno di aprile di un anno fa e ancora avvertiva un leggero imbarazzo nel guardarla. Lo faceva il meno possibile, quasi sbirciandola. E tutte le volte con lo stesso sobbalzo del cuore. Cercava in quella bimba, ormai cresciuta, qualcosa di sé, la percorreva tutta come fosse la mappa del suo vissuto. Il viso era aguzzo e scuro, scuri anche gli occhi e i capelli. E forse gli somigliava. Brunella era la sua eredità, la sua traccia nel mondo che non sapeva di aver prodotto.
Rimaneva immobile, un po’ sospeso davanti alla distesa dei Sassi, appoggiato alla balaustra del belvedere (come appoggiato alle informi possibilità dell’esistenza), e si chiedeva come avrebbe potuto essere la sua vita se avesse saputo prima di avere una figlia.
Uno sbuffo di vento più risoluto degli altri lo fece riavere dalle sue domande e, allontanando il cicaleccio dei suoi pensieri, si avviò verso l’indirizzo riportato sul retro della foto. Brunella forse avrebbe capito.
Penetrò nel cuore dei Sassi e, dondolando dolcemente fra i ricordi, si consegnò a quella città con lo stesso abbandono che si ha dinanzi al proprio destino.
Racconto tratto dalla raccolta inedita Trilogia dell'incontro e altre storie
di Maria Luigia Longo
venerdì 27 maggio 2011
per Andrea Zanzotto
giovedì 26 maggio 2011
Paesaggi di Tempo

mercoledì 25 maggio 2011
Racconti nella rete 2010 sceglie il mio "Salvami Giacomino"

Non quando Leo è partito per l’esercito, né quando Carmen si è ammalata di leucemia, ma quando mamma e papà hanno smesso di parlare. E in casa non ridevamo più.
È successo tutto all’improvviso. All’improvviso, una domenica, ho capito che non eravamo più una famiglia. Mamma non apriva più la casa alle vicine, non preparava più il caffè a metà mattinata e il cicaleccio che proveniva dalla cucina non mi veniva più a svegliare. E poi non cucinava più quel sugo con i pezzetti di carne che, come le aveva insegnato nonna, doveva cuocere lento lento per tutta la mattina.
Ma quello che era cambiato più di tutti era papà. Era diventato taciturno ed era sempre nervoso. Non metteva più la felpa della Juve e non mi diceva più – Dài, Giacomino, che appena faccio soldi ti porto allo stadio!
Ma non ci eravamo mai andati.
Quando ha smesso di dirmelo ho capito che forse avevo già da molto tempo cessato di crederci. E così anche lui ha finito di dirmelo.
Ma stamattina non so perché mamma ci riprova.
Sento le amiche che entrano in cucina, l’odore del caffè si diffonde per la casa e Madonna a tutto volume mi viene a svegliare.
“Time goes by… so slowly. Time goes by…so slowly. Time goes by…so slowly.
Time goes by… “
E balla attorno al mio letto.
E, se tutto è tornato com’era, papà è già giù che olia la bicicletta per andare insieme al Valentino. M’infilo la tuta velocemente, in fretta e furia bevo il latte e caffè con l’amica di mamma che parla del culo sodo di Madonna, e mi precipito in cortile. Faccio le scale quattro a quattro con l’aiuto della ringhiera e al secondo piano mi scontro anche con le sorelline di Ameth e con la mamma che indossa quell’abito voluminoso e per poco non inciampo nel passeggino dell’ultima figlia. Ma quante sono?
Sono velocissimo come un proiettile e ho il cuore in gola, ma papà in cortile non c’è. Lo cerco per un po’ ma non lo trovo, faccio il giro del palazzo, chiedo agli amici seduti al bar di fronte ma non l’hanno proprio visto stamattina. Giro ancora intorno al palazzo e la sua assenza mi sembra anche un po’ strana. [...]
Maria Luigia Longo
Brano tratto dall'Antologia di Racconti nella Rete 2010 - ed. NOTTETEMPO
martedì 24 maggio 2011
Vissuto fu lo scritto
Cercavo appena un'isola di spazio
Un silenzio un sorriso intorno a me
E blando vino e modica allegria
Un quieto conversare a lume spento
Esserne perdonato non sapendo
Il mio delitto»
Giovanni Giudici (1924-2011), "Il mio delitto" (da "Quanto spera di campare di Giovanni", 1993)