[...] E ti appropri di/un mondo che/nello scrutare sorpreso l'ombra/ha la sua strofa.// (da Paesaggi di tempo, pag. 24)
martedì 27 dicembre 2011
sabato 17 dicembre 2011
Corpo della fuga / Andante con brio
Riscrittura di Corpo della fuga / Andante con brio, Maria Luigia Longo, 2002-2011.
sabato 3 dicembre 2011

martedì 29 novembre 2011
giovedì 24 novembre 2011
Vuotami di te, Sgombro il campo, Sotto una soleggiata genia, ...
domenica 20 novembre 2011
Troppe volte
domenica 13 novembre 2011
PARIS, OÙ ES-TU?
La mattina mi svegliavo presto, alle prime luci e aspettavo che mia mamma rientrasse dalla ronda notturna. A quel tempo lei e altre donne dell'associazione Lea si erano messe in testa che dovevano pattugliare il quartiere.
-Il quartiere è nostro! Capisci, Maurice?- mi diceva le prime volte. - Non dobbiamo abbandonarlo!
- Il quartiere è una merda- le rispondevo - Qui non c'è un cazzo da fare. E' una galera.-
- C'è molto da fare, invece!-
Quella matta di mia madre si era messa in testa di fare il giustiziere della notte, armata solo di taccuino e biro. Usciva di casa verso mezzanotte e s'incontrava con Sophie, Fatima, Zahra, Patricia e le altre. Erano in quindici sedici all'inizio... e, d'accordo con l'assessore alla Tranquillità Pubblica di Montreuil, passavano la notte ad annotare sul taccuino tutto quello che vedevano di strano per le strade del quartiere e segnalavano problemi, mancanze...spacciatori compresi!
- Com'è andata stanotte?- le chiedevo quando rientrava
- Maurice, stanotte abbiamo contato che c'è un lampione ogni due chilometri di strada. Possibile?! Come fai ad evitare le aggressioni se intanto qui è tutto buio! -
Lei se la prendeva davvero. Ci credeva tanto nel quartiere.
E voleva che anche io facessi qualcosa di buono per migliorare le cose. Ma io in quel periodo ero un casino: avevo lasciato la scuola e non avevo niente da fare per tutto il giorno. Trovare un lavoro come si deve era praticamente impossibile, prima di tutto perché avevo solo sedici anni e poi perché di lavoro in giro non ce n'era, almeno per me.
All'inizio mi alzavo tardi, quasi a ora di pranzo e scendevo direttamente giù a mangiare un kebab o qualsiasi cosa fosse commestibile e poi me ne andavo a cazzeggiare in giro con i miei amici. Giocavamo quasi tutto il tempo a pallone: all'epoca adoravo Lilian Thuram e lo imitavo in tutto e per tutto. Se lo beccavo in tv o su qualche manifesto in centro mi immobilizzavo davanti a lui. Ma anche io ero bravo a giocare a calcio. Ero magico nel corpo a corpo, nessuno mi sfuggiva. Giocavo con l'uomo volante: driblavo chiunque con l'aiuto del muro di un palazzo, o del palo della luce o del marciapiede che, col rimbalzo, mi facevano da compagno di squadra. Eravamo una coppia infallibile, l'uomo volante e io.
A volte con i miei amici ci esercitavamo sullo skateboard mentre ascoltavamo musica rap o R&B, proprio di fronte a Rue de l'Acacia, dov'è ancora oggi il ghetto dei rom. Ci mettevamo quasi vicino al cancello del loro recinto e Ali partiva con i suoi rap.
A volte mi fermavo a parlare con Moustapha, un vecchio cieco che veniva, anche lui come noi, da Algeri. Lui era arrivato negli anni '70, mamma lo conosceva bene perché erano arrivati insieme. Mamma aveva cinque anni e lui invece era già più che un ragazzo. Li sistemarono tutti qui, a Montreuil. Avrebbero dovuto starci poco, due tre anni al massimo e invece se li erano dimenticati qui.
- Mousta, ma perché non hai preso e te ne sei andato?- gli ho chiesto una volta.
- Ci ho provato, Maurice... Ci ho provato due o tre volte. Ma dove me ne potevo andare? Da quando sono diventato cieco, poi...- E finiva sempre col raccontarmi i suoi malanni: la perdita della vista, poi del lavoro e poi la morte della moglie, proprio lì nel quartiere. Lui se ne stava sempre seduto sul marciapiede sotto il mio palazzo e qualche volta qualcuno gli portava da mangiare, anche mamma, o gli faceva l'elemosina. Lui non chiedeva niente però e in effetti non so come si mantenesse.
A me piaceva ascoltarlo, ma soprattutto quando mi raccontava dell'Algeria e dei primi tempi in cui era a Parigi: era così bravo che mi faceva vedere i colori, mi faceva sentire i profumi, sentire le voci...e il suo francese ancora un po' da straniero mi faceva viaggiare.
Da quando mamma aveva iniziato a fare la volontaria delle ronde però continuavo a pensare sempre a quello che mi raccontava e a quando mi diceva che è importante raccontare le proprie strade. Mamma era brava a raccontare qualsiasi cosa.
- La periferia, Maurice, non è solo quella che raccontano in tv o quelli che vivono in centro!-
E un po' aveva ragione, anche se all'epoca io la rabbia la sentivo davvero e non perché me la raccontavano quelli di Montparnasse. Anche perché io quasi mai andavo in centro o leggevo i giornali. Lei invece leggeva tanto, sopratutto da quando le avevano dato il part time e aveva tanto tanto tempo per fare quello che le piaceva. A volte s'incazzava tanto per alcune frasi che dicevano su di noi che abitiamo nelle periferie. Che eravamo tutti delinquenti, tutti spacciatori e che violentavamo le donne. Sì, a volte sentivo di fatti del genere, ma io non c'entravo niente con quelle storie e neanche i miei amici.
Una volta, ad esempio, si è incazzata davvero tanto perché Sarkozy aveva definito racaille, feccia, i ragazzi delle banlieue.
- Io veramente mi sento una merda, mamma- dissi ridendo, ma non per quello che intendeva quello stronzo di Sarko. Mamma quella volta s'incazzò pure con me per quello che avevo risposto, anche se l'avevo detto ridendo.
- Solo uno gli ha risposto per le rime: il tuo Thuram!- concluse trionfante.
Più tardi ho saputo che, una volta diventato presidente, gli ha offerto un posto come ministro della Diversità, ma che Lilian l'ha garbatamente mandato a fanculo.
Sarà stato perché mamma mi martellava con le sue storie, ma da un certo momento in poi guardavo il quartiere in un altro modo: anch'io notavo quello che non andava e lo raccontavo agli altri. Non scrivevo niente, scrivere proprio non mi piaceva, ma glielo raccontavo a parole.
Una volta, di fronte al muro della scuola, avevo letto la scritta: 'FRANCIA BIANCA, RABBIA NERA' e, a fianco, una marea di parolacce. E mi era venuta l'idea di fotografarla. Ma non avevo una macchina fotografica e allora chiesi ad Hassan se poteva procurarmene una tranquilla. Lui lo chiese a suo cugino e, nel giro di due giorni, ebbi la mia prima compatta Canon! Neanche a dirlo e mia mamma me la fece buttare in fondo alla Senna e mi fece sentire come se avessi compiuto il delitto del secolo.
- Maurice, non è così che bisogna agire. Su, pensaci bene!-
E io ci avevo pensato bene e avevo deciso di restituirla ad Hassan, ma poi mi ero un po' vergognato e non l'avevo mai fatto. Me la tenevo nello zaino ma non fotografavo niente. L'unica foto che avevo fatto era quella scritta sul muro. E per tanto tempo fu così: me la portavo in giro ma non fotografavo proprio niente. Però continuavo a pensarci.
A un certo punto mi capitò di trovarmi un lavoretto. Mi era capitato davvero per caso mentre una domenica con mia mamma stavamo andando a trovare una sua amica che abita a Le Marais. Scesi dal metro, sulla vetrina di una boulangerie, c'era scritto che cercavano un ragazzo per le consegne nel quartiere. Il giorno dopo iniziai. Mi pagavano quattro spiccioli, ma puntuali ogni settimana e io mettevo da parte quasi tutto per comprarmi la mia fotocamera digitale. Quando fui abbastanza vicino alla cifra che volevo raccogliere mi fermai sulla Senna e lanciai giù quella che mi aveva dato più di quattro mesi prima Hassan.
Così iniziai a far foto. Finito il lavoro mi fermavo a fotografare intorno alla boulangerie: le case, le panchine, gli alberi... le persone: i ritratti mi venivano troppo bene! Dopo qualche mese avevo già raccolto migliaia di foto, anche di turisti. Avevo, poi, fotografato più di duecento scorci sulla Senna. Meravigliosi!
Quando arrivava aprile ero troppo troppo contento: c'era una luce bellissima e faceva notte più tardi. E c'erano di quei tramonti...incredibili!
Quando tornavo a casa a volte, prima di salire, raccontavo tutto a Mousta e certe volte gli descrivevo le foto. E col tempo era proprio lui che me lo chiedeva.
-Dài, Maurice, raccontami qualche foto di oggi!- mi diceva.
- Bella Parigi, no?- dicevo prima di andare e lui rispondeva sempre - Eh sì, bella Parigi...ma dov'è Parigi, Maurice?- e lo ripeteva due o tre volte, ma dopo la seconda io lo sentivo di meno perché ero già in corsa verso casa.
In quel periodo ero davvero felice.
E anche mia mamma credo che fosse contenta della piega che stava prendendo la mia vita.
- Mamma, hai visto?- le dicevo quando guardavamo insieme le foto
- Guarda questa! Bella, no?- e lei sorrideva e annuiva.
-Quanto è bella Parigi!- dicevo
- Sì, è bella, Maurice, ma perché non fotografi anche Montreuille? E' qui che viviamo. Parigi arriva fino a qui, in fondo.- mi disse una volta.
La cosa all'inizio non mi convinceva molto. Cosa dovevo fotografare? I palazzoni sporchi e cadenti, le scritte sui muri contro la polizia, i ragazzi che si facevano negli androni? Io volevo fare foto artistiche e lì di arte ne vedevo ben poca. Poi però una volta nel primo pomeriggio, mi fermai non so perché a guardare Mousta da lontano. Ero dall'altro lato della strada e lui non se n'accorse, non poteva neanche sentirmi. Il suo corpo, che a me sembrava un mucchietto d'ossa gettato sul marciapiede, nella luce lunga di quelle ore proiettava sul muro del palazzo, alle sue spalle, la sua immagine un po' piramidale. Lui se ne stava seduto a terra a gambe incrociate e la sua ombra, un po' più spostata, dietro. Come a fargli compagnia.
Ecco, di colpo quell'ombra mi è sembrata bellissima. E mi è sembrato che anche il palazzo avesse una sua dignità con quella sagoma nera proiettata nell'angolo in basso a sinistra. A me di Mousta piacevano le braccia magre magre e lunghe, il viso rugoso e i capelli bianchi in contrasto con la pelle scura e soprattutto i suoi movimenti lenti e flessuosi. Ma quello che da allora mi piacque di più di tutto fu la sua ombra nera sul muro: una macchia scura dai contorni sfumati immersa nella luce del sole. E l'ho fotografata.
Non ho mai fotografato il vecchio Mousta, forse per rispetto e per non essere invadente, ma la sua ombra invece sì. Più e più volte. Non so se l'ho letto o è una mia invenzione, ma avrei voluto prendere una matita e tracciare il contorno della sua sagoma sul muro e trattenerla lì per sempre. Anche adesso che Mousta non c'è più e io ho imparato a scovare l'arte dove pochi scommetterebbero che ci fosse.
domenica 6 novembre 2011
LE PIETRE
Sento cadere le pietre che abbiamo gettato,
Cristalline negli anni. Nella valle
Volano le azioni confuse dall’attimo
Gridando da cima a cima degli alberi, tacciono
Nell’aria più leggera del presente, planano
Come rondini da cima
A cima dei monti finché
Raggiungono l’altopiano più remoto
Lungo la frontiera con l’aldilà.
Là cadono
Le nostre azioni cristalline
Su nessun fondo,
Tranne noi stessi.
giovedì 3 novembre 2011
Occorrenza.
Occorrenza di tutto di spazio
mercoledì 2 novembre 2011
I suoni e la polvere
mercoledì 19 ottobre 2011
un omaggio, un ricordo
per Andrea Zanzotto
Sprofondo forse anch’io
nell’idioma materno
che pure è il mio
quadrilatero.
Ma questo balbettio
riconosce un io
<il mio>
se costruisce il mondo
e vi appartiene.
Aderisco anch’io
a quell’afasia
di chi è dentro
le cose e le sostanzia.
Forse.
Ma nel dubbio
includo sempre
un io in ricerca.
E trovo il silenzio
ancora un docile riparo.
(Maria Luigia Longo, Paesaggi di tempo, Samuele Editore, p. 29)
martedì 18 ottobre 2011
Al mondo
Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente,
fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,
ed ecco che io ribaltavo eludevo
e ogni inclusione era fattiva
non meno che ogni esclusione;
su bravo, esisti,
non accartocciarti in te stesso in me stesso
Io pensavo che il mondo così concepito
con questo super-cadere super-morire
il mondo così fatturato
fosse soltanto un io male sbozzolato
fossi io indigesto male fantasticante
male fantasticato mal pagato
e non tu, bello, non tu «santo» e «santificato»
un po’ più in là, da lato, da lato
Fa’ di (ex-de-ob etc.)-sistere
e oltre tutte le preposizioni note e ignote,
abbi qualche chance,
fa’ buonamente un po’;
il congegno abbia gioco.
Su, bello, su.
Su, münchhausen.
sabato 15 ottobre 2011
Buon compleanno, poeta!
domenica 9 ottobre 2011
ORA SECONDA. DIALOGO COL PAESAGGIO.
rughe perenni
i calanchi
raccolgono l’intervallo di tempo
fra il dire e il fare
e tu
in quello spazio immoto ancora muovi.
Lo scempio di altri paesaggi
qui
non fa eco,
non stride, non urla
tutto tace
e s’accartoccia a cielo aperto.
L’unica cosa che rimane
è lo sterco del pensiero che s’immalinconisce.
(Maria Luigia Longo, Paesaggi di tempo, Samuele Editore, p. 20)
mercoledì 28 settembre 2011
venerdì 16 settembre 2011
E nottetempo...
domenica 11 settembre 2011
La vita in versi
Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettando occhiate
d’accordi. E gli astanti s’affacciano
al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.
è possibile più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.
[Giovanni Giudici, da La Vita in versi]
LA TUA TERRA
La tua terra
sa d'attesa e conta i passi
come fossero le ore del giorno.
E passa anche la lettura
dei nostri versi imperfetti
che tentan di ricalcare
le orme degli altri
mentre il passo cede
e si sofferma
un po' a guardare altrove
e un po' a issare
i calici celesti
di questo quasi vino
dell'ispirazione.
(Maria Luigia Longo, inedito 2011)
venerdì 2 settembre 2011
T'accompagnano altrove
martedì 9 agosto 2011
12 dicembre
Caro Igor,
questo foglio, vuoto, proviene da un quaderno importante e prezioso; pieno, proviene non so da dove. Da me, forse.
Riprendo a scriverti. Credevo non lo avrei mai più fatto. Ma scrivere mi fa bene, lo sai. Mi dà un senso fortissimo di appartenenza a me stessa.
Questo che vivo è forse uno dei periodi nei quali mi sono sentita più sola. E non soltanto lontana dal mondo, ma proprio da me. Non avrei mai creduto di dover vivere senza di me per un periodo così lungo. Mi sento sballottata, dentro e fuori e continuamente. Sento un atroce senso di estraneità quando mi muovo in mezzo agli altri, ma anche quando resto con me.
Avverto estraneità ogni qualvolta penso di vivere qualcosa di me e di mio. E l’abbandono, fuggo forse.
Mi vedo vivere, ma non mi sento vivere. Mi sento persa e non so più se sono persa in me o fuori da me.
Neppure nel sonno trovo riparo.
Poi quell’aereo l’ho preso davvero e adesso mi trovo a sud, nel sud del mio mondo. L’ho preso in silenzio e senza grossi clamori.
È passato qualche mese, ma non è cambiato molto. Non è cambiato niente.
E forse ritorno.
Anche se, in fondo, cosa cambia?
In fondo? Nulla.
Brano tratto dal romanzo inedito
lunedì 8 agosto 2011
l’ora senza rintocchi
Hai preparato la bara? - Igor, con la sua ironia improduttiva.
Stamattina l’ultimo spettacolo. Suo e mio.
Hai preparato la bara? - di nuovo.
Non riuscivo a muovere le labbra né ad articolare alcun suono.
Perché non parli? Siamo alla frutta -disse.
Odio le tue metafore e il tuo umorismo - io, con voce roca.
Perché non parli?!-lui, sempre più nervoso.
Ma non c’ero già più, né per me, né per lui.
Avevo mille discorsi in testa ma non riuscivo a parlare.
Lui mi scrollava e mi spingeva al muro e io sono rimasta inerme. Non avevo più niente da dirgli, né frasi nella testa o pensieri brulicanti.
Ero sola ed incosciente.
Non sei ciò di cui ho bisogno- Le mie ultime parole. A lui. Al mondo.
Ti metti sotto vuoto e guardi la vita scivolarti dalle mani! Sei morta! Morta-
Ma non mi toccava già più.
Sì, forse ero morta.
Brano tratto dal romanzo inedito
sabato 6 agosto 2011
8 giugno
Ho lasciato l’università nel caos più totale. In me.
Avrei dovuto dare l’esame. Ma ero in un certo stato di mente e mentre rispondevo in maniera esatta alle domande del professore, sono piombata in me. Improvvisamente. Non sono più riuscita a distinguere la mia voce da tutto il resto. Prima non sono riuscita a distingue le parole tra loro, poi la mia voce è stata assalita da altri suoni: il vociare confuso della gente alle mie spalle, il traffico delle macchine in strade lontane, il cinguettio di uccelli in volo non so dove, clacson suonati lungamente con rabbia, il rumore delle pagine dei libri sfogliati dalle mani di qualcuno nell’aula, il respiro pesante e affannoso del docente. Poi si sono aggiunte le immagini: un corpo di uomo seduto goffamente su una sedia e immerso in una parete bianca; mani gonfie che sfogliano un libro; occhi stanchi e fissi sulle mie parole senza alcuna indulgenza. I suoi occhiali. La cravatta scura immersa nella camicia. La gola scura, rosso marcio. Il suo odore di carne mattata. La sua gola debordante, sulle spalle e sul petto. La gola ovunque. La testa pelata e i suoi occhi cinici e noncuranti, la bocca sdentata. Gli occhi pieni di lacrime. Le mie. Le mie, di chi? Io in tutta questa gola, dov’ero?
Non ho più potuto distinguere tutto il resto da me.
Poi una voce - Signorina, ritorni al prossimo appello... e molto più preparata!
Quel tutto estraneo mi ha rigettata fuori. Fuori anche da me.
Smarrita inspiro profondamente, cerco di liberare la mente, poi chiudo gli occhi.
L’ululato sguaiato di un cane mi scuote e mi riporta in me. Sento il fruscio del vento tra l’erba secca. Il vento la scuote tutta e fa oscillare gli steli. Mi esplode dentro l’immagine dei fiori mossi violati. Vacillo e sento di essere sul punto di soccombere sotto alcuni pensieri. Si apre un baratro...fatto di pensieri, immagini e suoni.
Una tempesta di rumori. Il mio cuore: che frastuono! Il dolore cresce e non è un dolore solo dell’anima, no, è il mio corpo che soffre. Brucia tutto. Mi fa male il cuore. Mi brucia la pelle. Avverto spasmi lancinanti ovunque. Mi fa male lo stomaco, in un conato di vomito. Ho la testa pullulante di rumore.
Lo assaporo tutto, questo dolore. Sa di amaro. L’amaro della coscienza che se n’è andata. L’amaro di percepire tanta estensione in sé e non riuscire a trovare un appiglio. E precipitare lontani persino da sé. L’amaro di avvertire tanta estensione anche nell’altro e di non riuscire a sovrapporsi ad essa. Quell’amaro dovuto alla perdita dell’Igor-coscienza.
L’amaro di disperazione e smarrimento. Lo smarrimento della dispersione e frattura di sé.
Brano tratto dal romanzo inedito
venerdì 5 agosto 2011
7 giugno
Sono sul balcone, di spalle alla ringhiera.
Il cielo è coperto da grandi nuvole basse: la striscia di cielo limpido è quasi nulla. L’azzurrino del cielo che in alcuni punti si fa più scuro quasi grigio, nel quale sono immerse le nuvole dai contorni evanescenti illuminati dal sole, calamita la mia attenzione.
Il sole è già quasi del tutto sparito dietro le montagne, ma alcuni raggi illuminano bassi, indorando l’estremità inferiore delle nubi. Nei vetri appare anche, sbiadita, la mia immagine e il mio sorriso mesto.
Sono immersa nel tramonto arancione. Lo vedo riflesso nel vetro.
Di colpo un pensiero: il tramonto è dietro di me!
E mi stupisco.
Mi giro: tutto il confuso di colori è ben distinto e molto più vivo di come lo vedevo prima. Vedo anche altri colori: il più bello è un viola perlato che invade sulla destra la sagoma ombrosa dei monti. E dall’altra parte le nuvole spumose sono invece di un grigio perla immobile e mi disarmano. Il centro invece è tinto di un rosa sfumato ad un accenno di grigio. E, sotto, l’erba è più vicina ed è mossa dal vento. Ne sento il fruscio. Mi stupisce ancora tanta poesia di colori tenui.
Prima, nel vetro, non la scorgevo. Ma io? Che colore ho? E se ci sono, dove? Dove sono in tutto questo splendore?
Frattanto il tramonto si è tinto di buio e anche le mie sensazioni trascolorano pian piano e si dissolvono. Restano solo i ricordi, legati ai tramonti. Quanti ne ho vissuti! Quanti hanno, mio malgrado, vissuto me! L’ultimo qualche mese fa, con Igor o, meglio, senza di lui: accanto a lui senza di sé.
Era sabato pomeriggio. Io e Igor non eravamo più una coppia: c’ero io, i miei frammenti, i miei atti mancati, le mie fisime e c’era lui, i suoi frammenti, i suoi atti mancati, le sue fisime e c’erano i nostri dolori. E c’era sempre molto altro ancora oltre a noi due. Quel sabato andai molto presto nel suo regno fatto di ansia e di atmosfere inquiete. E a volte di dolcezza. E qualche volta di rabbia (adesso so che quando facevamo l’amore, lo facevamo per rabbia: aspettavamo che si accumulasse e che esplodesse furiosa in un orgasmo nichilista).
Faceva molto caldo. Io ero molto lontana da me e facevo di tutto per rimanerlo. La mattinata e tutto il suo torpore mi erano scivolati addosso sordamente. Igor era solo in casa e stava sul balcone a crogiolarsi al sole immerso nella lettura di un poeta: il solito Whitman. Alzò appena gli occhi dal libro quando arrivai e non rispose al mio saluto. Questo mi ferì e mi fece capire che avremmo forse litigato. Mi sedetti di fronte a lui. Aveva un bel corpo. Avrei voluto che si fosse alzato e mi avesse lasciata cadere nelle sue braccia. Lievemente.
Io non avevo la forza di toccarlo.
Alzò per un attimo gli occhi dal libro e mi lanciò uno sguardo duro e a me parve carico di rancore. Mi ferì. Rancore per cosa?
Leggeva ripetendo a voce bassa i versi whitmaniani. Aveva il labbro superiore leggermente carnoso e dalla linea irregolare. Mi ignorava. Io sentivo il bisogno di piangere, volevo solo amarlo lì e subito e invece...
Devo sbrigarmi se voglio arrivare in tempo.- disse di colpo correndo in casa.
Dove vuoi andare?, non capivo quello che faceva.
Ma lui non mi ascoltava nemmeno.
Dove stai andando?- gridai, afferrandolo per un braccio.
Lui si bloccò, come stupito; sembrava sul punto di dirmi qualcosa ma non riusciva a trovare le parole, non riusciva ad articolarle. Poi, dopo quell’esitazione, mi guardò smarrito e mi urlò che non dovevo toccarlo.
Non mi devi toccare! Te ne devi andare! Vattene via!
Rimasi scioccata e non riuscii a ritirare la mia mano che giaceva abbandonata e smorta. Restammo così per qualche istante. Avrei voluto non reagire e invece urlai anch’io, anch’io smarrita, anch’io violenta.
Tu sei pazzo!
Ancora una volta parole sbagliate e pesanti. Ancora una volta lo vidi perso in quelle mie parole, dietro ad esse e vidi me rincorrere entrambi: le parole avanti, veloci, Igor dietro, sgomento e poi io, sbagliata più delle mie parole.
Lo gridai ancora e più forte. Non mi controllavo più. Né lui controllava se stesso: mi allontanò da sé con uno strattone, andò verso la porta, afferrò la maniglia, esitò, si voltò a guardarmi e correndomi incontro mi abbracciò forte, tanto da farmi male. Mi baciò forte, anch’io lo baciai e poi mi disse lievemente Te ne devi andare! E più me lo ripeteva e più mi baciava e più io lo accarezzavo. Mi aggrappai a lui con tutte le forze.
Tutto fu violento e disperato, anche il distacco: fu come perdere un arto: sentii la carne lacerarsi e rimanere vuota di sé.
Non voglio perdere il tramonto, è quasi ora. -risoluto.
Vengo con te, dissi.
Non si oppose, ma sapevo che il silenzio di Igor non era mai stato assenso. Andai con lui, verso il mare, ma fu come perderlo una seconda volta: mi stava accanto ma era lontanissimo. Come può creare il gelo dentro di sé e intorno in modo tanto definitivo da trasmetterlo anche a me e, allo stesso tempo, renderlo inaccessibile? Come ci riusciva? Gli stavo accanto ma non gli stavo dentro e non potevo più afferrarlo, né toccarlo e neppure riuscire a vederlo.
Tornai a casa senza di lui.
Il giorno dopo mi concesse un’ultima carezza che a me suonò come uno schiaffo: alcuni versi di Whitman:
Addio, mia fantasia- ( avevo qualcosa da dire,
ma non è ancora il momento- il meglio che chiunque
debba dire
è quando è tempo e luogo- e quanto al significato
mi tengo il mio fino alla fine).
Igor.
Vorrei vederlo, ora. Per sentirlo parlare, per percorrere ancora una volta la linea delle sue labbra, il suono della sua lingua...
Ma forse non è ancora né tempo né luogo.
Camminare a quest’ora per strada, sotto il tramonto che piano piano si stempera, è inebriante e mi regala un certo senso di leggerezza. E vorrei dirlo a Igor.
Ho ancora le chiavi di casa sua e apro. Le finestre sono spalancate e le stanze sono invase da decine di mosche che volano freneticamente in circolo dappertutto. Lui se ne sta perso dietro ad un videogiochi di suoni e di colori. Forse è lì da diverse ore. La stanza è completamente buia.
È questo il tempo e il luogo? È adesso?- chiesi a mezza voce, avvicinandomi a lui. E’ passato molto tempo e forse non ricorda nulla. Aggrotta le sopracciglia e tace. Poi si volta con sguardo interrogativo.
Prendo dal comodino il libro di Whitman, sicura di trovarlo lì, al suo posto. Rileggo i versi. Lui va a sedersi sul letto.
Mi chiede di leggerli ancora, chiudendo gli occhi.
Lo faccio questa volta con molta più enfasi, incoraggiata dall’atmosfera patetica che si è creata. E dopo si crea un lungo silenzio.
No, non è ancora questo il tempo – dice scuotendo leggermente la testa - Non è ancora questo il luogo. Perché non ho proprio niente da dire. Cosa potrei dirti con questa nausea?
Seduta accanto a lui - Anch'io sento la stessa sensazione e spesso il buio della mente è così diffuso che vorrei davvero chiudere con me stessa, per non essere costretta a doverlo anche soltanto avvertire, dico
Non devi volerlo, è già successo: abbiamo già chiuso con noi stessi. E già da molto tempo.
Esausta affondo la testa nel cuscino e lì rimango.
D’un colpo, poi, avvicina la fronte al mio viso e prende con essa ad accarezzarmi la guancia, leggero, tenero… scivola così lungo il mio collo, la gola, il petto, il ventre e lì si trattiene.
Poi bruscamente torna al suo gioco. Smarrito in sé.
Non era né il tempo né il luogo e non c’era proprio nient’altro da dire.
Ciao.
Se n’era andato.
Brano tratto dal romanzo inedito